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Terrorismo, la tranquilla Svezia in realtà è una pentola a pressione

Il terrorismo non è questione di latitudine. Anche i territori che nell’immaginario collettivo sono l’habitat della serenità devono fare i conti con minacce e insidie che per anni sono state geograficamente localizzate in aree “tradizionali”.

Le lande scandinave sono lontane e climaticamente difformi dai consueti scenari cui il moderno configgere ci ha abituato. Eppure, ancor prima che la cronaca di queste ore catturasse la nostra attenzione, la pacifica e democratica Svezia già aveva la leadership europea nell’esportazione di jihadisti con oltre 300 aspiranti combattenti che hanno scelto come destinazione Siria e Iraq.

Nelle fredde città svedesi un terzo della popolazione non ha radici locali, ma è arrivata lì con i flussi migratori (160mila le richieste di asilo nel solo 2015) ed è di fede musulmana. Ad Angered, sobborgo nordoccidentale di Göteborg, la proporzione assume valori ancor più sbalorditivi e non si fatica a constatare che i non indigeni sono oltre il 70 per cento e da quelle parti si respira più malcontento che aria fresca.

La fin troppo evidente carenza di alloggi e le interminabili attese per trovare un appartamento in affitto nel centro della città indirizzano chi arriva a Göteborg a trovare sistemazione ad Angered, realtà ormai difficile da sorvegliare. Quella fetta di città viene considerata addirittura fuori controllo e paragonata a Scampia o ad altre realtà urbane che la polizia considera in stato di costante emergenza.

I rappresentanti religiosi cercano di controllare la comunità per garantire il rispetto della sharia. Le intimidazioni alle donne sono all’ordine del giorno e puntano a garantire una stretta ortodossia nell’abbigliamento e nei comportamenti. L’abbandono scolastico per gli “under 15” riguarda i due terzi dei bambini e la disoccupazione è dell’11% (valore stratosferico per gli standard svedesi).

In un simile contesto i giovani sono estremamente vulnerabili e facili preda dei reclutatori che non faticano a incoraggiare i disperati a unirsi all’Isis o ad aggregarsi direttamente in formazioni kamikaze. Il risentimento è l’ossigeno che ingolfa i loro polmoni e cuori.

Senza scomodare un ipotetico TripAdvisor del turismo religioso, è risaputo che la moschea Bellevue, alla periferia di Göteborg e ben conosciuta per gli stretti legami con varie associazioni islamiche e organizzazioni filo terroristiche, è stata il punto di partenza di parecchi foreign fighters.

In Svezia gli imam moderati sono loro stessi bersaglio di aggressioni: il solo tentativo di esortare al rispetto delle leggi e delle abitudini locali è stato più volte innesco di reazioni violente tra i fedeli in preghiera.

I dati del “Centre d’analyse du terrorisme” (Cat) pubblicati nell’ottobre scorso offrono uno spunto di riflessione e permettono di meglio inquadrare i livelli di permeazione continentale di presunti jihadisti.

La tranquilla Svezia (a quota 300) è al quinto posto di una classifica che vede drammaticamente in vetta la martoriata Francia (che svetta con 2183, seguita dalla Gran Bretagna a 1700): è la triste graduatoria che suddivide su base territoriale i cittadini europei e i residenti nel Vecchio Continente coinvolti in network jihadisti.

Inutile scrutare l’orizzonte. Meglio guardare a pochi metri.

Occorre fare qualcosa (e subito) per disinnescare il processo di non-integrazione che xenofobia e razzismo hanno accelerato in maniera iperbolica.

Come diceva la grandiosa Stella Rimington, dal 1992 al 1996 numero uno dei Servizi Segreti britannici e prima donna ai vertici di una struttura di intelligence, “non si deve combattere il terrorismo ma eliminarne le cause”.