In un saggio pubbicato da Il Mulino, lo storico del design Alberto Bassi fa il punto sullo stato di salute e le prospettive future di un settore che fa muovere le folle agli eventi dedicati, ma soprattutto rappresenta un settore economico che nel nostro Paese è stato spesso trainante. Ecco un brano dedicato alle prospettive del Made in Italy
Le folle riempiono gli eventi del Fuorisalone, ma qual è lo stato di salute del design e della sua industria? Che cosa resta del celebre Made in Italy negli anni della crisi e dell globalizzazione? Qual è la portata della rivoluzione digitale che consente una progettazione innovativa, socializzata e connessa? Ne scrive Alberto Bassi, storico e critico del design, docente all’Iuav di Venezia e blogger di ilfattoquotidiano.it, in Design contemporaneo-Istruzioni per l’uso (Il Mulino, 128 pagine, 11 euro). Un libro ove le considerazioni settoriali si mescolano alla storia e alle grandi tendenze contemporanee, fra rimandi colti e invasioni di campo verso altre discipline. “Al di là di sedie, lampade o automobili, che hanno a lungo identificato il loro campo di intervento”, si legge nelle note di copertina, “oggi i designer progettano anche sistemi e servizi, dall’interfaccia del bancomat al car o bike sharing”. Dunque “nuove tecnologie, nuovi modi di produzione, come la digital fabrication, consumatori sempre più evoluti”. Dal libro, pubblicato nella collana “Farsi un idea” giunta al suo ventesimo anno, ecco il brano che fa il punto sul settore industriale del Made in Italy.
Come descritto dall’economista Giorgio Brunetti in Artigiani, visionari e manager (2012), dentro il «capitalismo misto, pubblico e privato, vecchio e nuovo, che viveva sotto l’ala protettrice statale» ha trovato spazio l’Italia dei distretti che trae vantaggi
da alcuni fattori unici, come la moneta debole e le frequenti svalutazioni competitive (almeno fino all’avvento dell’euro), o dal sistema bancocentrico, dove il sostegno alle imprese si fonda su garanzie personali e patrimoniali, e non sui flussi di cassa attesi dagli investimenti.
Originato dall’aggregarsi attorno a un territorio locale di capacità e «saper fare» preesistenti perlopiù di matrice artigianale – ovvero, in tali realtà, gli artigiani si trasformano in piccole imprese manifatturiere – e sfruttando la coesione sociale, il distretto assume un’aggiornata dimensione sovralocale in relazione all’emergere di differenti necessità, competenze e mercati.
Si tratta di situazioni imprenditoriali spinte da singoli individui e gruppi familiari, abituati ai tempi medio-lunghi della costruzione e della trasmissione «interna» del governo e della cultura aziendale; avviate verso strategie di nicchia e specializzazione, segnate più che dall’introduzione di nuove tecnologie dalla gestione di tipologie di prodotti «maturi», da competenze definibili con l’aggettivo inglese intangible, in relazione alla valorizzazione del brand o al ruolo del design.
Tale modalità di innovazione incrementale necessita di adeguati strumenti di gestione caratteristici della cosiddetta «produzione snella» (lean production) congeniale ai distretti: larga autonomia decisionale ai livelli inferiori, legami fra le imprese, flessibilità nella progettazione, rapporti intensi fra ricerca, produzione e
aspetti commerciali nelle fasi di sviluppo e di prototipazione, integrazione efficace fra organizzazione e logistica.
Un modello destinato a confrontarsi con le logiche della globalizzazione finanziaria e commerciale, ma anche con la questione chiave del parziale e/o mancato rinnovo proprio dei gruppi di comando familiare. Le aziende solo in parte diverranno manageriali, salvo approdare in fretta, al venir meno delle condizioni di controllo patrimoniale di famiglia, alla gestione soprattutto finanziaria operata direttamente o da fondi di investimento, specialmente con la logica dell’intervento a breve
termine e a corto respiro.