Hanno scelto soprannomi da duri, vivono alla grande, pensano di aver trasformato un intero paese nella loro Magliana. Si danno arie da boss, tirano cocaina e si vantano di avere già fatto il “gabbio”. Ma prima di quel pestaggio, al massimo, potevano essere considerati due bulli con cui era meglio non avere a che fare per non incappare in rogne e rovinarsi la serata. Dopo, per la procura di Frosinone, sono diventati due presunti assassini. Sì, perché Mario Castagnacci, che su Facebook emula il Freddo, e il fratellastro Paolo Palmisani, che crede di essere il Libanese, hanno voluto scrivere il loro personale Romanzo criminale la notte tra venerdì 24 e sabato 25 marzo, nella piazza di Alatri, fuori dal Mirò music club, insieme ad altre sei persone (tutte accusate di omicidio volontario aggravato dai futili motivi), tra cui il padre di Mario, Franco Castagnacci e quattro buttafuori. Ma la trama di questo racconto non ha niente a che vedere con le gesta criminali dei personaggi inventati da Giancarlo De Cataldo, e nemmeno con quelle dei veri ragazzi di malavita ricostruite con precisione dal giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi. Questa è una storia più semplice. Senza intrighi, senza fascino, ma che parla ugualmente di morte. Quella di Emanuele Morganti, 20 anni, massacrato di botte forse per uno sgarro commesso mesi prima o forse per un banale litigio al bancone del bar.
IL PALCOSCENICO DEL PICCOLO CRIMINE
Siamo in un piccolo paese di provincia alle porte di Roma, oggi, 2017. La Magliana è lontana chilometri. Quella degli anni Settanta e Ottanta anni luce. Perché parte di quello che si è salvato dalle pallottole degli ex amici, dalle confessioni degli “infami” e dalle retate della polizia, è mutato, evoluto, in qualche modo si è imborghesito, senza per questo perdere la sua pericolosità: non traffica più droga in quantità industriali come una volta, non sequestra più persone, non regola più i propri conti trasformando le strade della Capitale in un mezzogiorno di fuoco come fecero la sera del 16 marzo ’81 l’Accattone Antonio Mancini e Marcellone Colafigli in via Donna Olimpia, a Monteverde, quando scatenarono la caccia ai fratelli Proietti, il Pescetto e Palle d’oro, per vendicare la morte di Franco Giuseppucci, il capo, er Negro. Oggi chi è sopravvissuto a quella stagione si arricchisce sempre, ma con i migranti, gli appalti pubblici, i ricatti. Parla ancora con la politica, certo, ma alla pari e non più da subalterno. Adesso però è alla sbarra. E i magistrati non la chiamano più banda. Ma Mafia Capitale.
Eppure quel mondo criminale nato nella strada della periferia romana dopo il boom resiste e continua ad affascinare ragazzi poco più che ventenni, che con quel contesto e con quegli anni non hanno niente a che spartire. Mario Castagnacci e Paolo Palmisani non hanno il pedigree criminale dei loro begnamini Abbatino e Giuseppucci, non sono rapinatori che hanno fatto il grande salto per dare l’assalto alla Roma bene, non parlano con personaggi del calibro di Pippo Calò e non inondano le piazze di eroina e cocaina: sono solo figli di buone famiglie che si atteggiano a boss e se va bene possono vantarsi con gli amici di essere stati pizzicati con della droga (è il caso di Castagnacci, arrestato la sera prima del pestaggio e rimesso in libertà perché il giudice ha riconosciuto il consumo di gruppo). Perché allora immedesimarsi in personaggi realmente esistiti e poi romanzati come quelli di Romanzo criminale?
L’ESPERTO DI MEDIA: “ROMANZO CRIMINALE NON HA COLPA MA E’ DIVENTATO MITO FONDATIVO”
“Mi hanno colpito le parole usate da Massimo Carminati per difendersi durante la sua deposizione al processo. Si è rivolto alla corte chiedendo se pensassero di essere in Romanzo criminale. Come dire, ‘ma voi pensate che la malavita organizzata funzioni come nei film?’. Questo fa capire come l’opera sia entrata nell’immaginario collettivo di tutti noi” spiega a ilfattoquotidiano.it Giorgio Simonelli, docente di Storia della televisione e di Giornalismo televisivo all’Università Cattolica di Milano. Secondo il professore “l’epopea di Romanzo criminale è talmente penetrata nell’immaginario” e si può parlare di “mito fondativo” e ,a differenza di Gomorra il palcoscenico dove è ambientato è Roma, “una realtà molto più trasversale rispetto ad altre città”, dove chiunque può immedesimarsi.
“E’ partito da un romanzo-inchiesta, poi è diventato un film, e infine una serie. Si è talmente ramificato nella società che è abbastanza facile usare questi personaggi come modelli. Non mi sorprende che criminalotti come questi abbiano come punto di riferimento i protagonisti della fiction. Ad esempio, quando ero ragazzino e si giocava a calcio ci si impersonificava nei nostri calciatori preferiti, Rivera o Mazzola. E’ chiaro però – precisa Simonelli – che questi modelli fanno presa su un contesto che già di per sé è criminale. Nell’Italia criminale tutti si identificano in Romanzo criminale”. Insomma, il libro o la serie non hanno nessuna “colpa” se Castagnacci e Palmisani si comportano da spacconi ed hanno – secondo le indagini – ucciso Emanuele. Sono così per loro stessa natura, indipendentemente dai film o dalle serie guardate. “Nessuno, per capirci, dopo aver letto il libro o visto il film si è messo a fare il bandito. Tutti noi siamo rimasti affascinati da Il Padrino, senza per questo mettere teste di cavallo nel letto di chi ci stava sulle scatole”. Un rischio però esiste. Le persone che non hanno gli strumenti adeguati per valutare possono pensare che “quella sia una vita normale, che tutto diventi alla maniera di Gomorra”.
IL CRIMINOLOGO: “DALLA LETTERATURA LA FASCINAZIONE CONFONDE FORZA E VIOLENZA”
Per il criminologo Massimo Picozzi interviene sempre un altro fattore nei casi come quello di Alatri: “L’errore di scambiare la forza con la violenza”. Inoltre c’è il fenomeno delle “groupie degli assassini”: “Ogni assassino che è stato al centro delle cronache viene inondato da lettere di ammiratori, qui assistiamo a un meccanismo simile: si resta affascinati da figure criminali”. E’ comunque innegabile che “a Roma e nei dintorni il bellissimo libro di De Cataldo e ancora di più il film e la serie televisiva hanno avuto  un’importanza gigantesca”, regalando una specie di aurea romantica ai banditi della Magliana, spiega lo scrittore noir Mirko Zilahy, che conosce bene il lato oscuro della Capitale, dove è ambientato il suo prossimo romanzo “La forma del buio” (in uscita il 18 aprile per Longanesi). “Roma è una città complessa, fatta di macerie e di iperboli. Dove si danno soprannomi a tutti, dove si tende a trasformare anche il vicino di casa in un personaggio”. Romanzo criminale è un po’ questo: una grande opera con al centro figure ispirate a boss realmente esistiti. I presunti assassini di Emanuele si rifanno proprio a quei protagonisti creati dalla penna di De Cataldo e non ai veri Abbatino, De Pedis, Giuseppucci o Abbruciati, che di romantico avevano poco o nulla. E’ qui che scatta il cortocircuito secondo Zilahy: “Quando sono assenti punti di riferimento più alti si tende a guardare questi personaggi con un occhio romantico senza capire che non rappresentano la realtà. In alcune persone manca la mediazione tra il reale e la fiction, oltre che la capacità di destrutturazione. E’ da questo che nasce l’immedesimazione e l’emulazione. E questo mi fa orrore”. Lo scrittore cosa deve fare allora? “Deve continuare a fare il suo lavoro, altrimenti dovremmo privarci dell’arte. Non si può non parlare del male per paura del male stesso”.
L’IPOTESI DELLO SGARRO
In questa storia però manca ancora l’epilogo. Resta da capire perché Morganti sia stato massacrato di botte davanti all’indifferenza generale dei tanti che hanno assistito al pestaggio senza intervenire. Melissa, sorella di Emanuele, un’idea se l’è fatta e l’ha raccontata alle Iene. Mesi prima di quella sera, suo fratello le aveva confidato di aver litigato con un ragazzo di Alatri a causa di una ragazza. Nei giorni successivi era stato anche minacciato: se avesse messo di nuovo piede in paese gliela avrebbero fatta pagare. Secondo Melissa Morganti, il ragazzo con cui Emanuele aveva litigato è un amico di Mario Castagnacci, che adesso si trova in carcere e per questo è estraneo all’omicidio. Ma da qui emerge il sospetto che la notte tra il 24 e il 25 marzo Emanuele non sia stato picchiato per un banale litigio, ma per vendicare uno sgarro. E’ una pista che gli inquirenti hanno seguito fin dall’inizio, convinti che con la lezione data a Emanuele, Castagnacci e Palmisani abbiano voluto rimarcare il loro “controllo del territorio”. Così come fanno le vere bande, che decidono chi vive e chi muore nella loro enclave. C’è un vecchio detto tra la mala romana: “A via de la Lungara ce sta ‘n gradino chi nun salisce quelo nun è romano, e né trasteverino“. Chissà quante volte lo hanno ascoltato quelli della Magliana. E forse anche Castagnacci e Palmisani lo hanno sentito, dopo aver salito lo scalino di Regina Coeli. O forse no. Perché possono fantasticare quanto vogliono, ma non sono trasteverini.
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