A volte per seguire le proprie inclinazioni è necessario un cambio di vita. Lo sa bene Stefano Silvoni, nato 48 anni fa in provincia di Padova, che da due anni si divide tra Italia e Germania. Dopo una laurea triennale in ingegneria biomedica e 15 anni di collaborazione con l’Ospedale San Camillo di Venezia ha deciso di rimettersi in gioco: “In questa struttura ho imparato moltissime cose, mi sono messo alla prova nel ruolo di ricercatore e soprattutto ho capito cosa significa lavorare in team”, racconta a ilfattoquotidiano.it.
Nel 2015, però, ha ricevuto una proposta a cui non poteva dire no: “Grazie alla rete di contatti che mi ero costruito negli anni è arrivata un’offerta da un istituto di ricerca di Mannheim per lavorare nell’ambito delle neuroscienze – spiega – e visto che la prospettiva era più a lungo termine ho deciso di accettare”. Così da due anni Stefano trascorre parte del mese in Germania e parte in Italia, dove ancora vive la sua famiglia: “Le mie radici sono qui, dove ci sono mia moglie e i miei due figli – ammette -, ma fin da subito mi sono trovato bene a Mannheim, sia da un punto di vista logistico che con i miei colleghi”.
Oltre a questo, Stefano porta avanti una collaborazione con un istituto di Tubinga, un progetto partito quando ancora lavorava in Italia. Ed è proprio insieme a questo team, guidato dal professor Niels Birbaumer, che è riuscito a mettere a punto un software che permette ai malati di Sla in stadio avanzato di interagire con il mondo esterno: “Si tratta di un’interfaccia, chiamata brain computer interface, che consente di leggere l’intenzione dei pazienti in base alle variazioni dell’afflusso di sangue in alcune aree del cervello”, spiega.
Questa cuffia dotata di sensori a infrarossi permette ai pazienti totalmente immobilizzati di comunicare attraverso i segnali cerebrali: “La macchina è stata messa a punto per coloro che si trovano nello stadio più avanzato della malattia, detto completely locked, quando non si è più in grado di muovere nemmeno gli occhi”, sottolinea. Questo software, invece, è in grado di stabilire con loro un tipo di comunicazione basilare, basata sul sì e sul no: “Queste persone sono completamente coscienti e con capacità cognitive preservate, ma l’avanzamento della malattia non gli permette di avere alcuna interazione con l’esterno – sottolinea -. In questo modo, invece, interpretando i segnali ricevuti dall’interfaccia, siamo in grado di venire a conoscenza dei loro bisogni”.
Il sistema, che al momento è stato sperimentato con buoni risultati su quattro pazienti, si divide in due fasi. Nella prima vengono poste domande chiuse, la cui risposta è già nota, come “Berlino è la capitale della Germania?”. Una volta messo a punto questo step si può passare alla seconda fase, in cui si fanno al paziente delle domande del tipo: “Hai dormito bene questa notte?” oppure “Hai dolore alla gamba?”. Grazie a questo sistema, poi, i pazienti possono esprimersi anche in merito a questioni di fondamentale importanza, come la volontà o meno di continuare a vivere.
Lavorando in questo ramo, Stefano conosce benissimo le difficoltà dei malati di Sla: “Sono tutti casi complessi e mi preme sottolineare che c’è un continuo bisogno da parte delle famiglie di supporto e di fondi. Queste persone hanno costante bisogno di cure per mantenere le funzionalità motorie residue, ma anche di affetto e amicizia”. Il suo lavoro in Germania gli ha anche permesso di capire l’importanza di rimettersi in gioco e di scoprire quello che c’è oltre i confini del nostro Paese: “In Italia ci sono tanti ricercatori che lavorano bene, ma solo se ti confronti con altre persone hai l’occasione di capire dove hai sbagliato e come puoi migliorare”.