Alla chiusura della
Design Week di Milano – con
Salone e Fuori Salone che hanno invaso ormai l’intera città e catalizzato l’attenzione di pubblico e media – può essere il momento, oltre la necessaria cronaca quotidiana spicciola, di provare a capire alcune
dinamiche e orientamenti più generali.
Innanzitutto le chiavi di lettura del fenomeno sono divenute differenti: la Design Week ha assunto una
rilevanza sociale ed economica che va
oltre il contenuto specifico culturale e progettuale.
Mostre, iniziative ed eventi (quest’anno anche
molti talks, conversazioni spesso a base di nomi famosi, non necessariamente periti oltre l’autopromozione del proprio) sono
diffuse in ogni dove – compresa, rispetto allo spontaneismo originario, una sorta di istituzionalizzazione attraverso la divisione delle zone urbane in
district benedetti dal Comune – con un utile ricaduta di informazioni e conoscenze, ma anche di
economie indirette per locatari, locali e esercizi vari. D’altra parte, da tutto il mondo si arriva a Milano per
(intra)vedere il design e “consumare” la città: un fenomeno nel complesso positivo (
dissensi, disagi e disservizi compresi, a cominciare dallo
sciopero dei mezzi pubblici a metà settimana che tanta buona fama (?!) ha fornito al sindacato e alle giuste lotte per il lavoro).
Diversa la questione della
rilevanza specifica per il design: la proposizione di problematiche inerenti
il fare progettuale e imprenditoriale, la conoscenza di
nuovi talenti, la
comunicazione (se non il business, Salone a parte)
delle aziende. Notiamo che si vede un po’ di tutto e non sempre di qualità accettabile, ma forse anche e proprio questo aiuta a capire le differenze, superando la vulgata diffusa che
“tutto è design” (quindi niente).
È in parte saltato, fra l’altro, il meccanismo che aveva portato alcune zone a diventare luoghi di riferimento orientati a gruppi di interesse che oggi paiono tutte un po’ in crisi: dalla
kermesse spettacolar-commerciale della Statale a quella
giovanile e sperimentale di Ventura Lambrate fino alla un po’
confusa e omnicomprensiva zona dei Navigli. Quindi
dappertutto, tanto e troppo di qualsiasi cosa, dall’arredo all’automobile, dal dilagante
food (ma basta chiamarlo food design, please!) alla qualunque, più per
esserci e sentirsi nominati (che è diverso che comunicati) che per avere qualcosa da dire.
Un giorno bisognerà però arrivare a valutare con razionalità
in che misura l’investimento frutta alle aziende e designer, non alimentando solo la comunicazione spicciola dentro un circuito che tende ad essere talvolta
chiuso e autoreferenziale. Un’altra tappa obbligatoria è da sempre
la Triennale, quest’anno con controllate presenze degli ospiti (dai “soliti” buoni giapponesi alla tradizione e attualità artigianale sarda o coreana) e una esposizione istituzionale sul
design for children, piacevole e divertente (come è diventato il design?) con, per la storica istituzione milanese, qualche
limite di impostazione storico-critica e curatoriale. Perché per fare una buona mostra non è sempre sufficiente disporre uno fianco all’altro una certa quantità di interessanti oggetti (con ridotte distinzioni per contenuto e didascalie poco “usabili”); ad esempio è possibile scegliere di introdurre – senza per questo divenire subito noiosi – organizzazione e
chiavi di lettura che aiutino a capire, a distinguere, approfondire, farsi delle idee e così via. Stimolanti fra le non numerose mostre della settimana, quella proposta da
Cassina per i suoi 90 anni, sulle nuove forme e idee per l’abitare, allestita alla scenografica Fondazione Feltrinelli oppure quella sui
20 anni del Salone satellite, che è stato a lungo fucina dei
nuovi talenti internazionali.
Dentro
l’offerta infinita – più che le predominanti legittime strade della
proposizione commerciale di prodotto o dell’
evento festaiolo per mostrarsi – sembrano interessanti allora, come al solito,
le università di design, importante termometro di sensibilità e competenze per i tempi che ci aspettano (fra le altre,
Central Saint Martin di Londra,
Elisava di Barcellona, i piccoli ma valenti corsi magistrali di
Università di San Marino-Iuav). Oppure di questi tempi paiono stimolanti le molteplici difformi
ricerche e sperimentazioni sul
rapporto fra progetto e produzione artigianale, su
custom design e
production. Difficile poter sostenere che questo sia il futuro, ma i molti esempi fra loro diversi da vedere in pochi giorni aiutano a uscire dalla confusione attorno a
nuovo e vecchio artigianato, analogico e/o digitale, e ad alimentare invece il confronto sulle
possibilità del design di fare “su misura”, come lettura e interpretazione delle sempre rinnovate e
reali esigenze e necessità delle persone.
Human design innovation, anche di questo si occupa il progetto.