Come i numeri stessi delle condanne a morte, anche i presunti progressi fatti dalla Cina nell’applicazione della pena capitale non sono verificabili. I “segreti mortali di Pechino”, come si intitola l’ultimo rapporto di Amnesty International, continuano a celare la realtà sulle esecuzioni condotte nel Paese. Nonostante la sbandierata trasparenza, “non è possibile verificare in modo quantitativo nessuno dei passi avanti che la giustizia cinese ha compiuto negli ultimi dieci anni, si legge nel documento di 35 pagine pubblicato dall’organizzazione per la tutela dei diritti umani. Almeno dal 2009 sono stati presi provvedimenti per limitare l’uso della pena di morte. C’è stata una diminuzione dei reati per i quali è applicata, oggi scesi a 46 dopo l’ultima revisione del codice penale del 2015; ci sono stati miglioramenti delle garanzie procedurali; è aumentato il numero delle condanne commutate. È stato infine aperto un registro online nel quale sono raccolti i documenti prodotti dai tribunali del Paese, compresi quelli della Corte suprema del popolo, il massimo organismo giudiziario del Paese.
“L’utilizzo in diminuzione della pena capitale potrebbe essere vero. Se così fosse sarebbe una buona notizia”, commenta a ilfattoquotidiano.it Riccardo Noury, portavoce per l’Italia di Amnesty. Ma alla prova pratica, la Cina si conferma il maggiore esecutore al mondo. La reale entità resta invece un segreto di Stato. Pertanto nel dato complessivo di 1.032 esecuzioni avvenute nel mondo nel 2016 in 23 Paesi (furono 1.634 in 25 Paesi nel 2015), l’organizzazione non tiene conto di quelle che stima siano le migliaia di sentenza di condanna eseguite ogni anno nella Repubblica popolare.
Che le pretese di Pechino non tornino lo dimostra lo stesso registro online, che in teoria dovrebbe garantire trasparenza. “Le esecuzioni riportate sulla piattaforma sono soltanto un 10% del totale forse anche di meno”, aggiunge Noury. Incrociando i contenuti del database con le notizie riportate dal motore di ricerca Baidu emergono tutte le discrepanze. Nel 2014 sul China Judgements Online erano presenti soltanto 41 casi contro i 291 riportati dal Google cinese. Per il 2015 il rapporto era di 18 contro 335, mentre lo scorso anno l’archivio riportava soltanto 26 esecuzioni sui 305 segnalati altrove.
Le condanne per droga sono ad esempio quasi del tutto assenti, nonostante ogni anno, ciclicamente partano campagne repressive. Dei 701 casi si sentenza capitale presenti sul registro, il 13% sono connessi a questo genere di reati. Tuttavia sui 185 casi trovati tramite Baidu, riferiti al periodo 2014-2016, appena sei sono riportati anche sul China Judgments Online.
Lo stesso vale per il terrorismo. “Da almeno quattro anni la repressione nella regione turcofona dello Xinjiang si è fatta più dura. Lo dimostra anche la condanna all’ergastolo contro l’economista e attivista Ilham Tothi”, ricorda il portavoce di Amnesty, “Le condanne a morte per terrorismo non sono però registrate”. Anche in questo caso incrociare le notizie con Baidu è di aiuto.
Dalle ricerche online emergono almeno 27 casi di persone messe a morte per reati legati al terrorismo tra il 2014 e il 2015. Nessuna notizia compare invece per il 2016. Il registro contiene tuttavia soltanto informazioni relative a 10 condanne confermate dalla Corta suprema nel 2014. Quanto ai casi che riguardano la minoranza uigura, quelli rintracciabili sul China Judgments Online sono 27 e tornano indietro fino al 2012, mentre non sono segnalate condanne successive al lancio della campagna “colpire duro”, partita nel 2014 in risposta a una serie di attacchi.
”Rispetto agli anni passati la Cina non si nasconde più dietro il diniego e il silenzio”, conclude Noury. “Al contrario ribatte con i progressi fatti e con il nuovo database. Per usare un termine forse abusato si tratta però di fake news, che rendono tutto più difficile”.
di Andrea Pira