Lo scrive il tribunale di Torino nelle motivazioni della sentenza con cui l’11 ottobre 2016 ha condannato l’ingegnere a 6 anni di carcere. La Procura aveva chiesto 7 anni e due milioni di multa
Salvatore Ligresti era “a piena conoscenza” dei problemi connessi alla carenza delle riserve di Fonsai. Lo scrive il tribunale di Torino nelle motivazioni della sentenza con cui l’11 ottobre 2016 ha condannato l’ingegnere a 6 anni di carcere. La Procura aveva chiesto 7 anni e due milioni di multa. I giudici hanno messo in rilievo il “ruolo egemonico e padronale” di Ligresti nella compagnia: nonostante fosse solo presidente onorario e azionista di riferimento, era l'”abituale referente e ispiratore dell’attività degli amministratori di diritto”. Il tribunale ha condannato Jonella Ligresti, figlia di Salvatore, a 5 anni e 8 mesi, l’ex amministratore delegato Fausto Marchionni a 5 anni e 3 mesi, l’ex revisore Riccardo Ottaviani a 2 anni e 6 mesi. Erano stati assolti l’ex vicepresidente Antonio Talarico e l’ex revisore Ambrogio Virgilio. La procura contestava le false comunicazioni sociali e l’aggiotaggio per la sottovalutazione di una voce del bilancio, la riserva sinistri, per circa 600 milioni.
La “falsa immagine” di Fonsai fu costruita non solo per “non pregiudicare le trattative in corso con un altro gruppo imprenditoriale”, ma anche per “il mantenimento degli esorbitanti benefici economici sino ad allora goduti dalla famiglia” scrive il giudice Giorgio Gianetti nelle motivazioni della sentenza di condanna. Era stato il pm Marco Gianoglio, nel costruire il capo d’accusa, a spiegare che la sottovalutazione della riserva sinistri, e le successive falsità nelle comunicazioni ai soci avvenute nel 2011, servivano a evitare la “diluizione della partecipazione di Premafin” nel gruppo Fonsai, e quindi di Salvatore e Jonella Ligresti, in conseguenza di un aumento di capitale superiore a quello inizialmente accordato con Unicredit. “Le criticità negli accantonamenti a riserva – si legge nella sentenza – erano ben note e il problema fu affrontato con finalità mistificatorie”. E i Ligresti, scrivono i giudici, “erano intenzionati a mantenere il controllo della compagine, dalla quale avevano tratto elevati vantaggi economici”.
Nel documento il giudice Giorgio Gianetti chiarisce le ragioni – ad avviso del tribunale – della “imponente” sottovalutazione di una voce del bilancio di Fonsai, la riserva sinistri. Un vero e proprio “baratro” che, secondo una conversazione fra due manager intercettata dalla Guardia di finanza, già nel 2008 era di 500 milioni e che nel 2010 aveva forse toccato quota 800. Per il tribunale non si trattava soltanto della sfortunata applicazione del modello attuariale Fisher-Lange: c’era qualcosa di più, almeno da un certo momento in avanti. Perché “le criticità degli accantonamenti a riserva erano ben note e il problema fu affrontato con finalità mistificatorie”.
L’ingegnere di Paternò, secondo la sentenza, era “l’abituale referente e ispiratore dell’attività degli amministratori di fatto“. Emblematiche le intercettazioni di Marchionni: “Non caschiamo dal pero. Tutti passavano prima da lui e poi venivano da me”. Nessuno degli imputati lo ha mai chiamato in causa direttamente, ma il tribunale ritiene che fosse “a piena conoscenza” delle problematiche nonché “del tutto allineato con la posizione della figlia Jonella (presidente e membro del comitato esecutivo – ndr) e, anzi, verosimilmente, primo promotore della stessa”.
Jonella, in un primo tempo, chiese di patteggiare ammettendo i fatti: “Mi segnalarono che la riserva al bilancio 2010 erano insufficienti ma non intervenni in alcun modo in quanto avevo convenienza a non fare apparire la società in uno stato peggiore di quello era”. Al processo la difesa ha sostenuto che quella dichiarazione, prodotta da un gravissimo disagio psicologico, non aveva valore. I giudici hanno deciso diversamente. E hanno anche sancito che il comunicato Fonsai del 23 marzo 2011 sul bilancio consolidato abbia turbato i mercati. Non è necessario fare calcoli perché l’aggiotaggio è un reato di pericolo e non di danno.