Cinema

Moglie e marito, risultato sconfortante: troppi errori di ridondanza del solito filmetto familiare all’italiana

Non potendo contare ogni anno sullo strabordante made in Italy felliniano post ’89 di Paolo Sorrentino, sul falso rilancio di Cinecittà dell’era veltroniana, giusto e necessario è ricreare uno stimolo industriale che possa attirare l’interesse delle major hollywoodiane in Italia

La polemica di Davide Turrini

Tra moglie e marito non metterci il dito. E non farci neppure un film. Soprattutto se oltre la trovata buffa dello scambio di corpi e menti non costruisci nient’altro. Moglie e marito, opera prima di Simone Godano, esce il 12 aprile 2017 con l’intento di essere la commedia pasquale da incassi. Prodotta da Picomedia e Groenlandia, ma soprattutto da Warner Bros Italia, Moglie e marito doveva e poteva essere un altro tassello d’esportazione dopo Lo chiamavano Jeeg Robot, Perfetti Sconosciuti e Veloce come il vento, di un cinema italiano che rilancia una sorta di autonomia di genere, di un’autorialità sfumata sulle sacre sfere del box office. Invece il risultato è piuttosto sconfortante. E ancora una volta lo ribadiamo: non ci piace la stroncatura in sé, ma semmai l’idea che si possa comprendere i limiti di un lavoro che con un nonnulla di creatività e inventiva in più, con una briciola di eccentricità maggiore anche solo nella scelta delle location e nella concentrazione/moltiplicazione dei set, avrebbe consegnato una screwball comedy da (ri)portare in giro per il mondo.

Non potendo contare ogni anno sullo strabordante made in Italy felliniano post ’89 di Paolo Sorrentino, sul falso rilancio di Cinecittà dell’era veltroniana, giusto e necessario è ricreare uno stimolo industriale che possa attirare l’interesse delle major hollywoodiane in Italia. Solo che Moglie e marito è la semplice amplificazione di tanti, troppi errori di ridondanza del solito filmetto familiare all’italiana fatto comunque senza i soldini Warner. Intanto partiamo dalla sinossi: neurologo lui, redattrice di un programma tv lei; per un blackout di un macchinario che cattura onde cerebrali appiccicato da lui al cranio di entrambi, esperimento per accaparrarsi fondi della ricerca in ospedale, si scambiano memoria e atteggiamento identitario. Andrea (Pierfrancesco Favino) inizia così a sculettare come la più scontata macchietta omosex, Sofia (Kasia Smutniak) si muove come un rozzo misogino di periferia non riuscendo nemmeno ad accavallare le gambe (ma perché gli uomini non sanno accavallare le gambe?). I dettagli sono tremendamente importanti quando si aziona la sospensione dell’incredulità. La stereotipizzazione di un gay e di un deficiente da stadio e rutto libero (come se prima i due nei loro reali panni di genere fossero così oscenamente ammiccanti) sembrano essere l’unico orizzonte caratteriale dei due protagonisti post sostituzione di ricordi e anima. Sofia con vita, pensieri e parole di Andrea ribalta i canoni di una trasmissione tv che doveva difendere le donne; Andrea chiaramente con pensieri e parole di Sofia riempie di mossettine e svenimenti corsie e sale operatorie di ospedale.

Mica diciamo che il surreale e il grottesco non devono macinare particolari improbabili. Il punto semmai è la banalità con cui si prova ad andare avanti dopo il turning point narrativo, accatastando la stessa sequenza dell’incomprensione altrui, o finta accondiscendenza, fino a creare vere e proprie inconsistenti reazioni dei comprimari (peraltro Valerio Aprea, l’amico medico di Favino recita sciolto e brillante proprio fino a quell’istante lì). È proprio di fronte all’intreccio che si sfilaccia, all’ennesima ribattuta in cui si svela il segreto agli astanti/amici/comprimari, alla possibilità che l’accumulo di gag porti ad un apice comico, che Moglie e marito crolla. Prendiamo Sofia, che poi è Andrea, che cerca di entrare a casa dell’amico per andarci a dormire dopo il litigio con Andrea, che poi è Sofia; eccolo, anzi eccola, che lo tampina una, due, tre, quattro volte e gli ripete lo stesso concetto disvelatore. E allora Michele/Valerio Aprea ogni volta non ci crede, ma con una faccia che nemmeno il controllore di fronte ad Ajeje Brazorf nel film di Aldo, Giovanni e Giacomo.

I tempi comici che si mangiano le sceneggiatrici Carmen Danza e Giulua Stiegerwaltz sono un piatto luculliano di Natale. E il fatto che produttori, regista e attori non si siano accorti di questo continuo rimescolare le stesse due carte all’infinito, sorprende in modo eccezionale. Altro accorgimento da esportazione, visti gli investimenti della casa madre Usa: la musica. I brani originali di Andrea Farri sono letteralmente sballati come accelerazione ritmica rispetto al gorgo ripetuto, e rallentato, dello script e della messa in scena di Godano. Talvolta sbucano questi assolo di armonica che scaricano un’energia completamente avulsa rispetto al tempo del film che non basta nemmeno più la sedia gettata da J.K.Simmons ad altezza Miles Teller in Whiplash. A questo punto la guerra tra i sessi, con tutta la possibile brillante declinazione tematica del caso, e la delicata tempistica screwball, si dissolvono nella nuvoletta della fretta e dell’inesperienza. Talvolta si dice che basta copiare, ma farlo molto bene. Ecco se la produzione di Moglie e marito avesse mostrato anche solo qualche sequenza di Nei panni di una bionda di Blake Edwards avremmo evitato l’espediente ridondante che la povera Smutniak è costretta a ripetere quando le battute e le scene languono: soffiarsi verso la fronte per togliersi la frangia che cade sugli occhi. Un paio di volte funziona, alla decima capisci che è meglio chiuderla lì.

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