di Chiara Vannoni *
La tematica del lavoro dei detenuti e, soprattutto della loro retribuzione è, perlopiù, sconosciuta e ignorata anche da chi per lavoro si occupa di diritto del lavoro. In realtà si tratta di una questione che, seppur sottaciuta, risulta di grande rilievo e riguarda in generale le condizioni di vita in carcere e le concrete possibilità di un effettivo reinserimento nella società dei detenuti una volta terminata la pena.
Nonostante la credenza generale per cui la pena abbia, o dovrebbe avere, una funzione punitiva, il nostro ordinamento è fermamente ancorato intorno alla funzione rieducativa che la stessa debba (dovrebbe) avere.
L’art. 27 della Costituzione non consente alcun dubbio al riguardo: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dei umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’Ordinamento Penitenziario afferma inoltre che il trattamento (cioè l’insieme delle azioni che devono favorire il reinserimento sociale) del condannato deve (o dovrebbe) essere svolto principalmente mediante – tra le altre cose – il lavoro, che deve essere assicurato al detenuto e che deve essere remunerato, dal momento che non è ammessa alcuna forma forzosa di lavoro.
La situazione attuale qual è, quindi? Oggi, in Italia, le persone detenute sono – secondo gli ultimi dati del Ministero della Giustizia – 56.289 tra uomini, donne, italiani o stranieri, a fronte di una “capienza regolamentare” di 50.211 persone.
In queste condizioni solo circa un detenuto su quattro lavora: l’ultima relazione sullo svolgimento di attività lavorative del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) parla infatti si soli 14.570 detenuti che svolgono una attività lavorativa e la maggior parte di questi – 10.175 persone – svolgono i cosiddetti “lavori domestici”, alle dirette dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria: sono gli scopini, gli spesini, i piantoni e gli scrivani, insieme ai cuochi e ai porta vitto e sono i lavoratori che vivono le condizioni più disagiate ed inique, guadagnano in media 2,50 euro all’ora.
Meno di una colf, meno di un precario, meno di tutti.
I detenuti “domestici” sono retribuiti con la corresponsione di una mercede. La mercede è il compenso spettante al lavoratore per la prestazione; la sua determinazione è stabilita da una commissione ed è ancorata al trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro, con previsione della riduzione fino a un terzo rispetto alla paga stabilita dai contratti collettivi di riferimento. Purtroppo, la Commissione non si riunisce dal 1993-1994 e quindi da quel momento, di fatto, i compensi dei lavoratori detenuti domestici sono rimasti invariati.
E’ noto che già in diverse occasioni i Tribunali hanno condannato il Ministero della Giustizia a pagare ai detenuti le “differenze retributive”, cioè quelle somme che sono appunto la differenza tra quanto gli spesini, i porta vitto, i piantoni avrebbero dovuto percepire e quanto hanno, invece, percepito.
E’ evidente il cortocircuito: l’Amministrazione Penitenziaria – e il Ministero della Giustizia – si trova, suo malgrado, ad essere causa di discriminazione e di condotte contrarie alla legge, addirittura recidive, dimenticando così del tutto la funzione di rieducazione che deve invece essere garantita.
Inoltre l’aumento delle spese di mantenimento che il detenuto deve corrispondere, l’assenza di condizioni di lavoro e che rispettino la dignità, che non può essere disatteso in un momento così delicato come l’esecuzione di una pena detentiva, comportano conseguenze economiche e sociali non più trascurabili, concorrendo ad allontanare sempre di più l’ideale di reinserimento successivo alla pena: una volta uscito dal carcere, infatti, l’ex detenuto è accompagnato da un debito gravoso che condiziona pesantemente il reinserimento e, talvolta, lo ostacola.
Nonostante quindi il problema del lavoro in carcere, della sua retribuzione e della sua assenza sia stato ben analizzato, purtroppo, le soluzioni non si prospettano all’orizzonte in ragione di ovvie carenze di bilancio e di fondi conferiti all’Amministrazione Penitenziaria.
Questa situazione, oltre alle condizioni delle strutture carcerarie e delle difficoltà di vita dei detenuti non meno che di lavoro delle guardie carcerarie, amplia sempre di più il divario tra quello che è previsto e quello che, purtroppo, si verifica nella realtà.
* Giuslavorista per vocazione, vivo ed esercito la professione forense a Milano e mi occupo in particolare delle tematiche delle pari opportunità, discriminazioni di genere, molestie sul posto di lavoro. Voglio pensare che non ci siano “datori di lavoro cattivi” e “lavoratori buoni”; ma solo un buon diritto del lavoro, cosa che – ahimè – oggi non è così possibile affermare.