Antonio Fiori, docente di Politica e Istituzioni della Corea all’Università di Bologna, vede nella dottrina varata dall'amministrazione Trump la causa di uno scontro dalle conseguenze "disastrose": "L'attendismo di Obama non ha portato buoni frutti, ma la strategia della tensione del tycoon è sciagurata. Quell'area del Pacifico è a resto caos"
“Una escalation militare tra Stati Uniti e Corea del Nord? Non la escludo affatto, soprattutto a causa del cambio di atteggiamento di Washington”. Antonio Fiori, docente di Politica e Istituzioni della Corea e dell’Asia Orientale all’Università di Bologna, vede nella nuova strategia varata dall’amministrazione Trump la causa di un possibile scontro dalle conseguenze “disastrose”: “L’atteggiamento attendista dell’amministrazione Obama non ha portato buoni frutti – spiega il docente – perché ha permesso a Pyongyang di sviluppare il proprio arsenale in maniera indisturbata, ma la strategia di Trump è sciagurata. Si deve cercare il dialogo con il regime, nella speranza di normalizzare la situazione, mentre qui stiamo assistendo a uno scontro frontale”.
La strategia politica del Regno Eremita è la stessa da tempo, quella della deterrenza. In sostanza, fare la voce grossa e sviluppare i propri armamenti, soprattutto nucleari, per disincentivare un atteggiamento aggressivo da parte delle potenze esterne. Un modo per mostrare i muscoli internamente, linfa vitale per qualsiasi regime totalitario, che in politica estera contribuisce a quell’isolazionismo che caratterizza il regime di Pyongyang. “Ciò che è cambiato – spiega il professore – è l’atteggiamento degli Stati Uniti, ma in maniera pericolosa. Si è passati dalla ‘pazienza strategica‘ di Barack Obama, troppo attendista e che ha permesso alla dittatura di aumentare la propria potenza militare, a una politica della nuova amministrazione che è veramente sconcertante. Gli Usa rifiutano le richieste nordcoreane di un tavolo negoziale perché chiedono un graduale smantellamento dell’arsenale nucleare. Ma Pyongyang è già una potenza nucleare, è una richiesta improponibile”.
Così, mentre gli Stati Uniti rispondono alle provocazioni militari del nipote del Grande Leader, Kim Il-sung, dicendo che la Repubblica Popolare Democratica di Corea “cerca guai”, riorganizzando le proprie forze nella confinante Corea del Sud e inviando la portaerei nucleare Carl Vinson vicino alle coste della penisola asiatica, Kim Jong-un risponde di essere “pronto a reagire a qualsiasi tipo di guerra”. “Una situazione molto pericolosa – continua il docente – che potrebbe gettare nel caos l’intera area del Pacifico, mettendo a repentaglio la sicurezza degli alleati americani, Corea del Sud e Giappone in testa. L’amministrazione Trump deve capire che non ha a che fare con la Siria questa volta: di fronte ha una potenza militare capace di rispondere molto duramente alle provocazioni”.
Situazione, questa, che la Cina prima di tutti vuole scongiurare. Innanzitutto perché un eventuale collasso de regime di Pyongyang porterebbe a una riunificazione della penisola di Corea sotto forte influenza americana, proprio alle porte di casa. Secondo, perché un epilogo militare sconvolgerebbe tutta l’area. “I recenti colloqui tra Xi Jinping e Donald Trump non hanno portato grandi cambiamenti – continua il docente – ma la Cina ha tutto da perdere in caso di una escalation militare. Ed è probabile che Washington continui a ignorare le richieste di tregua da parte di Pechino proprio per fare pressioni sulla presidenza cinese e costringerla a sua volta a fare pressione sul regime. Ciò che negli Stati Uniti non capiscono è che i cinesi non hanno così tanto potere politico sulla dittatura, che è uno Stato sovrano e indipendente. Chiedere a Pyongyang di chinare la testa di fronte agli Usa va contro qualsiasi logica legata a un regime totalitario”.
L’unica strada percorribile, quindi, è quella del tavolo negoziale. “Diverso da quello del passato – dice Fiori – diverso dalla pazienza strategica, dal Six-party Talks di George W. Bush e anche dal bilateralismo di Bill Clinton, anche se quest’ultimo è quello che ha avuto un po’ più successo. Si deve instaurare una trattativa che divida, innanzitutto, le questioni economiche da quelle politiche, così che un nuovo periodo di tensione non possa frenare i progressi in altri campi, e porti, alla fine e con programmi a lunghissimo tempo, a una riunificazione della Penisola con modello federale, in cui la Corea del Nord mantiene comunque autorità sui suoi territori. Prima di tutto, però, si deve finalmente mettere fine alla mai formalmente conclusa Guerra di Corea (dopo l’armistizio del 1953 non è mai stato firmato un trattato di pace, ndr)”.
Gli Stati Uniti devono però avere la capacità di non rispondere alle future provocazioni del regime che, a pochi giorni dall’anniversario della nascita di Kim Il-sung e della fondazione del Chosŏn inmin’gun, l’Armata Popolare Coreana, potrebbero presto arrivare. Come è già successo nel 2012 con il fallito lancio in orbita di un missile a lungo raggio da parte del regime, azione considerata provocatoria da parte di Washington e che portò alla rottura del neonato Leap Day Agreement. “Se il botta e risposta dovesse continuare – conclude Fiori – non si può escludere l’ipotesi del conflitto. Questo perché gli Usa hanno deciso di intraprendere inspiegabilmente la strategia della tensione. Che si rendano conto, però, che anche attacchi mirati a siti nucleari o anche solo alle rampe di lancio missilistiche nordcoreane provocherebbero conseguenze disastrose”.