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Calcio, allenare la mente per sfruttare il potenziale. Parla lo psicologo

Qual è la componente principale per cui un giovane riesce nell’impresa (perché di questo si tratta) di formarsi come calciatore professionista? E qual è quella che lo costringe al calcio dilettantistico o peggio ancora ad appendere le scarpette al chiodo, già in tenera età? Per rispondere a queste domande, mettiamo da parte tutte le influenze extra-sportive (inutile negarlo) come procuratori, sponsor, raccomandazioni, ecc. e concentriamoci esclusivamente sui fattori legati al “campo”. Tecnica e prestazione atletica sono certamente fondamentali, ma altrettanto importante è sicuramente la componente psicologica.

Arrigo Sacchi al Mondiale del 94 fu pioniere nel calcio italiano affiancando ai suoi giocatori degli psicologi per capire – in quel caso – chi fosse più pronto mentalmente ad affrontare la gara. Ma oggi la figura di un “esperto in Psicologia della prestazione umana” è molto più presente nel calcio, anche a livello dilettantistico. Mi sono rivolto al professor Giuseppe Vercelli, consulente psicologico per la Juventus e docente di Psicologia sociale e Psicologia dello sport presso l’Università degli studi di Torino.

Stiamo parlando di un esperto in materia, capace di illustrare in modo semplice e allo stesso tempo professionale tutte le dinamiche – positive e negative – che stabiliscono se un ragazzo avrà la forza di reggere l’impatto emotivo con il calcio professionistico o no. Quindi, quanto è importante allenare la mente? “L’allenamento mentale deve permettere al singolo di raggiungere il proprio massimo potenziale, promuovendone l’autonomia e l’indipendenza”.

Troppo spesso, però, entrano in gioco problematiche che inquinano il percorso di crescita e la tranquillità psichica dell’atleta, specie in giovane età. Le precauzioni da adottare di certo non mancano: “Le cause – di un disagio psicologico ndr – sono molteplici e dipendono molto dalle caratteristiche dell’individuo. Nonostante ciò, è possibile identificare alcuni meccanismi che agiscono principalmente in un’ottica preventiva. Tra le prime soluzioni attuabili, riteniamo sia importante costruire un ambiente il più favorevole possibile per il giovane atleta. Per far sì che un ambiente sia, appunto, “favorevole” esso dovrà fondarsi su una base fortemente ‘valoriale-educativa’ con un unico obiettivo: la crescita del ragazzo. E l’obiettivo è tale che dovrà essere perseguito anche a discapito della prestazione sportiva in sé. Se il focus sarà sull’uomo e non sul risultato, se l’esperienza formativa sarà fondata su eticità, competenza e soprattutto divertimento, allora si otterranno traguardi importanti”.

È fondamentale, quindi, che ci sia sintonia tra le parti (giocatore, società e famiglia). Spesso, però, è proprio la componente più vicina al giocatore – la famiglia – a creare situazioni di disagio psicologico nell’approccio del ragazzo o del bambino allo sport. È interessante quindi capire come una società deve rapportarsi con la famiglia stessa per prevenire tali situazioni: “Il primo passo è sicuramente quello di acquisire consapevolezza. Il problema può quindi muoversi verso la risoluzione solo nel momento in cui si ha capacità di riconoscerlo, identificandolo come ‘problema‘. Solo da quel momento in avanti sarà possibile attribuire un ‘significato‘ a quella situazione-problema, in modo da strutturare delle strategie che permettano al singolo e al gruppo di individuare le azioni da compiere. È però nel e dal gruppo che deve nascere la soluzione, perché solo da esso si potrà giungere alla strategia corretta‘. Invece, il modo migliore per allenare genitori e società è fare fronte comune. L’obiettivo è quello di porre l’atleta, il bambino, al centro di tutto, riconoscendo però i ruoli e i compiti che le figure adulte dovranno avere nel processo di maturazione del ragazzo. Solo attraverso la condivisione e l’alleanza si può generare un ambiente favorevole e più formativo possibile per il giocatore e per l’uomo”.

Infine, un consiglio prezioso a tutti quei ragazzi che sognano di diventare giocatori professionisti, ma anche a chi, per un motivo o per l’altro, è costretto ad abbandonare il sogno di una vita: “L’aspetto mentale è uno degli elementi che influenza la carriera di uno sportivo. È infatti attraverso un processo che coinvolge e integra anche gli aspetti psicologici che l’atleta ha la possibilità di riconoscere e sfruttare a pieno i propri punti di forza, colmando le eventuali aree di miglioramento che lo discostano dall’eccellenza. Anche per quanto riguarda coloro che invece non hanno l’opportunità di continuare a perseguire il proprio sogno, la strategia è la medesima: accedere al proprio massimo potenziale in modo da far capire a coloro che terminano il proprio percorso sportivo che in realtà le competenze che hanno maturato sono tante e spendibili in nuove opportunità“.

L’intervista completa al Professor Giuseppe Vercelli è consultabile qui.