Esce domani in libreria Ho molti amici gay, saggio di Filippo Maria Battaglia, edito da Bollati Boringhieri (pp. 136, euro 11), che racconta “la crociata omofoba della politica italiana” dal dopoguerra oggi. Una storia che coinvolge destra, sinistra e centro. Il libro sarà presentato a Milano, domenica 23 aprile, alle 11.30 in occasione della fiera Tempo di libri insieme a Paola Concia ed Eliana Di Caro (Sala Helvetica, padiglione 2). Ne anticipiamo un estratto.
L’autenticità della frase è incerta ma da tempo è comunque entrata nella leggenda. Si racconta che a metà degli anni Novanta il neodeputato di An Francesco Storace, incalzato alla fine della trasmissione Porta a Porta da un paio di giornalisti che gli chiedevano: «A Stora’, dì qualcosa di destra!», rispose senza esitare con un secco: «A frociii!». Sull’episodio esistono pochi riscontri e lo stesso Storace ne ha smentito i contenuti. Ciò che è certo, però, è che una dozzina di anni dopo, nel 2006, una scena molto simile si sarebbe ripetuta sempre dagli studi della stessa trasmissione, ma stavolta a microfoni aperti. Al posto di Storace, la sua ormai ex collega di partito Alessandra Mussolini che, in piena campagna elettorale, riferendosi alla futura prima parlamentare transgender della storia d’Italia, Vladimir Luxuria, griderà: «Meglio fascista che frocio!». Ecco, basterebbe forse questo per sintetizzare come nella seconda repubblica l’insulto omofobo sia stato scagliato per attaccare l’avversario e delegittimarlo, ma si rischierebbe di trascurare le decine di sfumature tra il tragico e il grottesco declinate in oltre vent’anni dai politici nostrani.
Proviamo allora a partire dall’inizio di questa storia. Con buone probabilità, si può sostenere che a inaugurare il filone dell’ingiuria gay in Aula sia stato proprio lo stesso Storace, qualche mese dopo essere entrato per la prima volta a Montecitorio. Non da solo, però. Il 20 ottobre 1994, mentre si discute della riforma della Rai, Mauro Paissan, dei Verdi, decide di affibbiare l’etichetta di «tangentari e tangentisti» agli uomini di Gianfranco Fini, ricevendo una grandinata di insulti incentrata in gran parte sul suo (presunto) orientamento sessuale. «Frocio! Frocio!», urlano i deputati aennini. Il più agitato di tutti è Nicola Pasetto: per una manciata di secondi riesce ad aggirare i commessi, aggrappandosi al collo dell’onorevole prima di essere bloccato. «Paissan, fai bene a farti scortare: sei un pusillanime porco, pederasta e busone!», grida Stefano Morselli. Volano altri in- sulti e spintoni, ma a chi contesta un uso disinvolto delle mani la truppa di An replica compatta. «Io non gli ho fatto niente, perché non mangio i finocchi», dice Teodoro Buontempo. Il meglio, però, arriva con Storace, che alle accuse di aggressività replica così: «Quella checca di Paissan mi ha graffiato con le sue unghie laccate di rosso, io non l’ho toccato. Vi sfido a trovare le mie impronte digitali sul suo culo!». E a quelli che, nei giorni seguenti, gli fanno notare che tra l’altro Paissan è eterosessuale, il futuro governatore del Lazio risponde con ineccepibile lucidità: «Tutte le volte che sono andato in televisione con lui, il giorno dopo decine di persone mi chiedevano se era gay. Quindi la colpa non è mia: sono gli italiani che lo ritengono omosessuale».
L’ossessione omofoba non abbandona la destra neppure all’inizio del nuovo millennio. Ne dà prova l’msi Luigi Caruso, quando con understatement attacca un suo avversario definendolo «arrùso. Insomma: gay». «Dichiarato?», gli chiede Aldo Cazzullo. «Noooo. Però lo sanno tutti». E alla domanda «e lei lo dice in pubblico?» risponde convinto: «Noooo. Alludo. Il mio avversario è ambiguo; politicamente ambiguo, e non solo politicamente. E il suo schieramento non è né carne né pesce, né uomo né donna».
A finire sotto attacco in quei mesi è anche «la politica estremamente permissiva del centrosinistra nei confronti dei musulmani e degli omosessuali». Lo dice in quei mesi senza troppi giri di parole Roberto Calderoli, invitando Francesco Rutelli e compagni a fare «il partito dei finocchi anziché delle margherite». E lo ribadiscono qualche anno dopo i suoi colleghi mentre si discutono i ddl su omofobia (dal 2007) e unioni civili (nel 2016). «Lesbica!» – racconterà la relatrice del testo, la senatrice pd Monica Cirinnà – è l’epiteto più garbato scagliato da alcuni avversari.
L’alloro dell’insulto omofobo in Aula va però probabilmente assegnato all’aggressione nei confronti del senatore udeur Nuccio Cusumano. È il 24 gennaio 2008, manca qualche minuto alla caduta del secondo governo Prodi. Cusumano si alza e annuncia di votare «in solitudine» la fiducia all’esecutivo contrariamente all’indicazione del suo partito, appena uscito dalla maggioranza. Un attimo, e in Aula accade il finimondo. «Pezzo di merda, traditore, cornuto, frocio», gli urla il suo collega Tommaso Barbato, prima di lanciarsi contro il malcapitato. «Gli ha sputato addosso», giurano alcuni testimoni. Il senatore di An Nino Strano, invece, preferisce insultarlo dandogli della «checca squallida». Cusumano sviene, viene soccorso e portato via in barella, la notizia fa il giro dei siti stranieri. E l’onorevole Strano? Dopo essersi scusato, si definisce «esteta fottuto, amico di travestiti, troie e gay». Quanto all’accusa al suo collega («checca squallida», appunto), risponde serafico: «Ponevo l’accento sull’aggettivo. Denunciavo lo squallore della sua posizione».
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Tratto da F. M. Battaglia, “Ho molti amici gay. La crociata omofoba della politica italiana”, Bollati Boringhieri (pp. 136, euro 11)