In un articolo uscito il 10 giugno 1973 sul quotidiano Il Tempo, Pier Paolo Pasolini scriveva che non è un cambiamento di epoca, quello in cui noi viviamo, ma una tragedia. La tragedia di cui parlava Pasolini è il vuoto di valori in cui la società dei consumi stava trascinando quella popolare umanità che nella sua semplice quotidianità era custode di un modo di vivere in cui ancora il sentirsi parte di una comunità contava qualcosa. Davanti agli occhi di Pasolini si profilava già l’immane tragedia dell’avvento delle televisioni commerciali, del consumismo, della politica genuflessa al dio denaro. Dei Craxi, dei Berlusconi e oggi dei loro epigoni dalla parvenza giovanile: i Renzi, i nuovi Piddini, i politici che trascorrono le serate negli studi televisivi a parlare di problemi che non conoscono, non capiscono e non sono interessati a approfondire.

Oggi più che mai se Pasolini potesse ancora scrivere il suo sentimento di amaro disincanto di fronte al vuoto di valori che si è imposto nelle istituzioni politiche, nei sistemi di potere e nei gangli dell’intera società italiana risuonerebbe ancora più drammatico e intenso. Se ai potenti al governo “togliessero la maschera rimarrebbe solo il nulla.  Sotto la maschera non ci sono volti, non ci sono ossa, non ci sono personalità e cervelli”.

Intitolare la scuola di formazione politica del Partito Democratico alla figura di Pier Paolo Pasolini è, rileggendo queste parole, qualcosa di empio, terribile, profano. Pasolini non amava i partiti che giudicava contenitori chiusi che ingabbiavano la creatività e la spontaneità degli individui. Guardava con sospetto chi era al potere e con disprezzo sincero gli intellettuali organici che proni al potente di turno ne decantavano in ogni dove le lodi e le gesta. Anche dopo la sua morte, pochi lo hanno veramente amato e il monumento all’Idroscalo di Ostia, nel luogo dove è stato ucciso il 2 novembre 1975, rimane nel suo degrado lo specchio di quanto la sua figura sia ancora oggi invisa al potere politico e ai potenti di turno.

Massimo Recalcati, personaggio che frequenta abitualmente il mezzo che per Pasolini era veicolo della distruzione dei valori della socialità popolare – la televisione  – ha firmato un’introduzione programmatica in cui si prefigura come scopo della nuova scuola di partito il guadagno di quella “giusta verticalità del pensiero” che è “la condizione necessaria per rendere l’azione politica più incisiva”. Recalcati si premura di avvisare i lettori del manifesto che i docenti della scuola sono intellettuali di riconosciuta qualità e figure rilevanti del Pd che si sono distinte per l’originalità del loro pensiero e dei loro insegnamenti, “forze intellettuali libere, non vincolate a schieramenti ideologici, autenticamente laiche”.

Chissà cosa penserebbe Pasolini dell’appropriazione indebita e oltraggiosa della sua figura e del suo nome utilizzati per giustificare la verticalizzazione di un pensiero che per essere autentico lui aveva sempre rivendicato dovesse essere popolare. Forse derubricherebbe semplicemente le parole di Recalcati come un effetto della prostrazione degli intellettuali organici al potere. O forse ci ricorderebbe ancora una volta che bisogna sempre chiedersi cosa c’è di più scandaloso: se la provocatoria ostinazione dei potenti a restare al potere o l’apolitica passività del paese ad accettare la loro stessa fisica presenza”. In una delle sue più belle foto, il grande scrittore e poeta friulano è ritratto vestito con giacca, pullover e cravatta nel gesto plastico del calciare un pallone. Le braccia sono aperte come le grandi ali di un albatros e ha i pugni chiusi. Il gioco del calcio esprimeva per lui quel senso di orizzontalità popolare che irride la verticalità del pensiero gerarchico e autoritario che sta cospargendo il paese della putredine culturale che alimenta il vuoto.

Pasolini batte Recalcati 10 a 0.

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