La repubblica parlamentare turca è morta ma quella presidenziale è nata sotto una stella appannata. Per questo, nemmeno ai suoi fan più accaniti, che lo hanno salutato sulla sponda asiatica della sua città, Istanbul, cantando “noi siamo l’esercito tu il comandante”, Recep Tayyip Erdogan ha concesso sorrisi e gesti esultanti di vittoria. Perché il risultato del referendum di ieri non è stato una vittoria per il presidente turco, nonostante la tanto agognata riforma costituzionale sia stata approvata. Il 51 per cento non può rappresentare una percentuale soddisfacente per colui che vuole passare alla storia come il nuovo Ataturk, ovvero il padre dei turchi, o meglio, il padre dei nuovi turchi. Colui che, se verrà rieletto nelle consultazioni presidenziali del 2019 diventerà il primo presidente della repubblica presidenziale turca e rimarrà al potere almeno fino al 2024, non ha infatti ottenuto il 60 per cento dei voti sperati.
La seconda ragione per cui il “Sultano” ieri si è presentato davanti alla stampa locale e internazionale scuro in volto pronunciando un breve discorso dai toni sobri, per lui del tutto inconsueti, è il fatto che questo 51 per cento è il frutto di un voto in parte manipolato come dimostrano i numerosi video realizzati dagli attivisti nei seggi elettorali. Ma per la Corte Elettorale, le immagini di alcuni presidenti dei seggi intenti a mettere il timbro sulla parte della scheda con la scritta “Sì” ( gesto ripetuto centinaia di volte) non costituisce la prova che ci siano stati brogli, come denunciato anche dai partiti di opposizione a partire dal principale, il repubblicano socialdemocratico Chp. Se, formalmente il risultato non subirà cambiamenti, una lunga ombra è scesa sulla già traballante democrazia turca. Verosimilmente si tratta dell’inizio della fine per Erdogan. Se in ambito internazionale verrà ancora considerato il legittimo presidente della prima repubblica presidenziale turca e continuerà a sedere al tavolo dei negoziati sulla Siria e sull’adesione all’Europa, internamente ne esce estremamente indebolito non solo perché ha vinto di misura ma soprattutto perché ha perso nelle principali città del paese, a partire da Istanbul, dove è nato e cresciuto politicamente diventandone il sindaco nel lontano 1994.
Istanbul, Ankara, Smirne, Antalya, Mersin, Hatay, per non parlare della capitale morale del Kurdistan, Diyarbakir, hanno mostrato che il motore politico-economico-culturale della Turchia non gli permette più di correre speditamente verso quel mandato a vita che, nemmeno troppo segretamente, è la più grande aspirazione di Tayyip. Paradossalmente a proteggere Erdogan, da oggi ufficialmente detentore di un potere assoluto che dal 2019 gli consentirà di designare anche la maggior parte dei giudici, oltre ai ministri e di controllare di fatto il parlamento potendo scioglierlo con un ordine esecutivo, sono proprio le democrazie occidentali che lo hanno criticato aspramente. Già la scorsa settimana la stampa britannica avvertiva che è meglio trattare con un uomo forte perché garante di un sistema più stabile.
Anche l’Unione Europea è di fatto dello stesso avviso, persino la Germania, accusata di nazismo dal Sultano non più di un mese fa, non può che assecondarlo per il timore che tradisca il patto anti-immigrati voluto da Angela Merkel. A permettere che la sua stella dunque emani ancora dei bagliori saranno dunque proprio coloro che facevano intendere di preferire vederla spegnersi per rivedere un cielo multipolare. Secondo molti analisti, stando così le cose, Erdogan sarà costretto a governare in modo più moderato ed eviterà nuove purghe contro la stampa indipendente, i curdi e i gulenisti. Ma quest’uomo dall’ego ipertrofico e dal carattere iroso ed estremamente suscettibile non ha mai optato per il dialogo con gli avversari politici, schiacciando la stampa indipendente e chi dissente e anzi non si è mai fatto alcuno scrupolo a schiacciare con violenza chi non è con lui, considerandolo contro di lui, a partire dalla rivolta popolare di Gezi Park del 2013.
E in questo senso non è un segnale tranquillizzante che abbia promesso di indire un nuovo referendum per ripristinare la pena di morte ai suoi sostenitori radunati per acclamarlo subito dopo l’annuncio del risultato referendario. Forse saranno solo parole di consolazione per lo zoccolo duro del suo elettorato dai tratti fascio-islamico-capitalisti, deluso dal risultato. Ma è altrettanto vero che Erdogan finora ha sempre mantenuto ciò che gli aveva promesso. Il clima del giorno dopo pare calmo e i piccoli gruppi di cittadini scesi in strada al grido di “ladro, ladro” contravvenendo alle regole imposte dallo stato di emergenza vigente dal fallito golpe di luglio – che molto probabilmente verrà prolungato a partire da maggio – non costituiscono un pericolo e non riusciranno a bloccare l’ingranaggio che ha permesso l’inizio di una nuova era per la repubblica turca. Buona o cattiva che sia.