Ancora una volta, un referendum diventa un boomerang per chi l’ha indetto. Ma all’uomo forte della Turchia, il presidente Erdogan, va meglio che al premier britannico Cameron – battuto di misura sulla Brexit – e al premier italiano Renzi – travolto sulla riforma costituzionale. Perché Erdogan il referendum lo vince, sia pure di stretta misura e non a mani basse come sperava.
La riforma costituzione in senso presidenziale passa, ma il risultato elettorale consegna a Erdogan ormai ‘presidentissimo’ un Paese spaccato, nonostante o, forse, anche a causa della repressione dell’opposizione e delle ‘purghe’ di giudici, generali, professori, intellettuali e giornalisti critici dell’involuzione autoritaria e islamica di un Paese da quasi un secolo laico e aperto all’Europa e all’Occidente.
Nello scrutinio, il sì è partito fortissimo, ma il suo vantaggio s’è progressivamente eroso: quando erano state scrutinate un terzo delle schede, il sì era ben sopra il 60%; alla metà, era sceso sotto il 60%; ai due terzi, era sotto il 55%; e alla fine s’aggirava sul 51%. Ci sono stati 24 milioni 325mila voti per la riforma, 23 milioni 170mila contro (su 55 milioni di potenziali elettori). Fra i turchi all’estero, che hanno votato con percentuale record (1,3 milioni, il 45%), i no hanno nettamente prevalso con il 60%. Il sì ha vinto nella maggioranza delle 81 province turche.
S’è votato dalle 08.00 alle 17.00 – ore locali. Il referendum non prevedeva un quorum: l’esito veniva deciso dalla maggioranza semplice dei suffragi espressi. Sull’ufficializzazione dei dati, pesano le contestazioni del maggiore partito d’opposizione turco, il Chp socialdemocratico, che mette in discussione il 37% dei suffragi espressi per brogli o irregolarità.
Il risultato del voto allontana ulteriormente e forse definitivamente la Turchia dall’Unione europea, perché incoraggia scelte, come il ripristino della pena di morte e la subordinazione del giudiziario all’esecutivo, che vanno contro i valori fondanti dell’Unione europea. E aumenta l’imbarazzo per i Paesi dell’Ue che, con l’intesa raggiunta lo scorso anno, hanno consegnato alla Turchia di Erdogan – con l’impegno a versare somme cospicue – il controllo del flusso dei migranti dalla Siria verso la Grecia e la rotta dei Balcani. Difficile, comunque, a questo punto che i negoziati di adesione, già in stallo, si sblocchino.
Inoltre, il risultato, dando a Erdogan maggiore potere, nonostante il risultato risicato, aumenta l’insicurezza internazionale. Il presidente turco s’è già mostrato uomo dalle alleanze aleatorie: prima amico di Israele, poi nemico; prima nemico della Russia, poi amico, poi di nuovo nemico; prima complice e partner d’affari dell’autoproclamato Califfo, poi in prima linea contro i miliziani del sedicente Stato islamico.
In un contesto internazionale già caratterizzato dalle volatilità e imprevedibilità decisionali di leader come Trump, Assad, Kim, un Erdogan più forte incrementa il potenziale disordine mondiale, mentre accresce il controllo sulla Turchia traversata al proprio interno da opposizioni diverse, etniche, politiche, terroristiche, su cui il regime gioca mescolandole e confondendole.
Non è oggi l’Europa ad allontanarsi dalla Turchia. E la Turchia ad allontanarsi dall’Unione, magari ferita dalle diffidenze e dalle riluttanze mostrate in passato da Bruxelles e da singoli Paesi Ue verso Ankara, le cui aspirazioni europee erano state a più riprese e in tempi diversi tradite o deluse. E ora Erdogan ha la convinzione d’avere di nuovo una spalla a Washington, al di là della collocazione e del ruolo strategici della Turchia nella Nato.
Il ministro degli Esteri turco Cavusoglu, dopo avere votato nel suo seggio ad Antalya, ha criticato quei Paesi stranieri che “hanno cercato di dire ai turchi che cosa dovrebbero fare”. Uno strascico della campagna segnata da forti tensioni, specie tra la Germania e l’Olanda e il regime di Erdogan.
Il referendum e il suo risultato sono l’occasione per fare chiarezza: il discorso dell’adesione all’Ue è chiuso, ammesso che sia mai stato davvero aperto. Il rapporto dell’Unione con la Turchia va gestito senza ambiguità su questo punto: no all’involuzione autoritaria, ma vicinanza a quei cittadini turchi che si battono per difendere la libertà d’espressione, la laicità delle Istituzioni e la democrazia.