Non l’ha detto una volta sola. Non due. Non cinque. Lo ha ripetuto nove volte: “Non ho mai detto che erano tutti morti, ho detto che c’era ancora gente da salvare”. Ventisei anni dopo non è una frase riportata, non è una voce da verificare, non è un sentito dire né una trascrizione ambigua a poter ridisegnare la storia del disastro del Moby Prince. E’, al contrario, la parola del testimone-chiave, anzi di più: l’unico testimone, l’unico su 141 che è uscito vivo dal traghetto che la sera del 10 aprile 1991 stava vagando, in fiamme, davanti al lungomare di Livorno. E’ Alessio Bertrand che parla alla commissione d’inchiesta del Senato che indaga sulla più grave tragedia del mare in tempo di pace in Italia, causata dalla collisione tra il traghetto Livorno-Olbia della Navarma e la petroliera Agip Abruzzo. Ascoltato a casa sua – in provincia di Napoli – da una delegazione di senatori, Bertrand ha smontato una delle colonne portanti dei processi che per quella strage non hanno mai trovato responsabili: “Non ho mai detto che erano tutti morti” ha ripetuto. Quasi un giuramento, che avrà un peso quando la commissione riceverà le perizie su materie diverse: tra queste c’è anche quella medico-legale che dovrà dire per quanto tempo le persone a bordo del traghetto sono rimaste in vita, se più di mezz’ora come appare certo e se c’era ancora il tempo di una potenziale operazione di salvataggio.
Alessio Bertrand, il mozzo, il superstite, il miracolato. Ventitré anni, di Ercolano, la sola licenzia media: sale sul Moby Prince, quel 10 aprile 1991, per lavorare in coperta insieme allo zio Gerardo. E’ al suo primo imbarco, eppure è lui a salvarsi. Mentre la nave viene inghiottita dal fuoco, vede i suoi amici cadere l’uno dopo l’altro sopraffatti dal fumo. Si bagna, si mette all’esterno di una ringhiera, a poppa, aggrappato: rimane così per quasi tre quarti d’ora, in attesa di soccorsi che non arrivano. Vede arrivare mezzi di salvataggio mentre rimane appeso?, gli chiedono i commissari. No, risponde lui.
Viene recuperato un’ora e 20 minuti dopo lo scontro tra le navi: a salvarlo sono due ormeggiatori, operai del porto, il mestiere più vecchio sulle banchine. Gli dicono di buttarsi, lui lo fa: finisce in mare, lo recuperano e poi lo affidano a una motovedetta della Capitaneria che lo porta sulla terraferma, di cui si vedono le luci in lontananza. Di lui si ricordano gli occhi spiritati in quel video in cui, incazzato, una furia, grida in napoletano, in piedi sul predellino di un’ambulanza che di lì a poco l’avrebbe portato all’ospedale. Si è salvato, ma non sarà mai salvo. Ogni volta che parla di quella notte scoppia a piangere. “Prendo psicofarmaci, altrimenti non dormo” disse con un filo di voce al Tirreno, nel 2011, nella prima intervista dopo vent’anni. “La psicoterapia da sola non basta. Non ho più il coraggio di guardare il mare, quando sento il rumore delle onde mi sale lo sgomento”. Non vuole mai ripensare a quella notte che gli ha cambiato la vita, ha cambiato lui stesso, forse in peggio, parole sue.
Ma con la commissione d’inchiesta parla, come ha parlato ogni volta che gli è stato chiesto dalle autorità che hanno indagato in questi anni, in particolare i magistrati di Livorno. Il racconto è affaticato, i ricordi a macchie. Un colpo di luce qui e un colpo di luce là. Ma la narrazione non perde mai coerenza. Ripete per esempio alcune cose che ha sempre detto. Come la causa della collisione, per come gli fu spiegata. “Incontrai il timoniere, gli chiesi cos’era successo e mi disse: c’era nebbia e siamo finiti contro un’altra nave”. Bertrand la nebbia non la vide, gliela riferì il timoniere, Aniello Padula, incrociato nei movimenti convulsi dell’equipaggio durante l’emergenza. La stessa nebbia che qualcuno vede e molti altri no. Poi ricorda che voleva buttarsi subito quasi all’inizio dell’emergenza, fermato dallo zio che lo avvertì del pericolo delle eliche. L’unico che si buttò alla fine fu Francesco Esposito, 43 anni, di Pizzo Calabro, barista di bordo: morì affogato, quando lo recuperarono dal mare intorno alle 9,30 (11 ore dopo l’incidente) diventò la prima vittima ufficiale della tragedia del Moby.
Ma quello che è “nuovo” riguarda il momento in cui viene issato a bordo della piccola barca degli ormeggiatori – Walter Mattei e Mauro Valli – che hanno il merito di identificare finalmente il Moby Prince dopo che tutti i soccorsi si sono precipitati sulla petroliera Agip e hanno il merito di essere gli unici a seguire la nave in fiamme sperando che si butti qualcun altro, di trovare qualcuno in mare da recuperare. “Se ce ne fossero stati venti, ne avrei salvati venti” dice Valli al Fatto.it.
Ma parte proprio dalla voce di Valli, registrata quella sera sul canale d’emergenza, una serie di incrinature che restano per il momento senza spiegazione. Mentre Mattei manovra la piccola imbarcazione, Valli parla alla radio con la Capitaneria: E grida: “Abbiamo raccolto un naufrago, dice che c’è ancora persone sulla nave”. Lo ripete, lo urla tre volte, perché sente che nessuno lo ascolta, che la Guardia Costiera, che pure è lì vicino, indugia. “Punta
sulla nave per favore che c’è ancora gente ci dice questo naufrago che abbiamo raccolto”. E ancora: “Andare a poppa della nave, il naufrago ci dice che ci sono ancora dei naufraghi da salvare”.
Ma 18 minuti dopo aver raccolto Bertrand dal mare, tutto cambia. Dalla sala operativa dei piloti del porto chiedono: “Il naufrago ha dichiarato che si sono buttati in mare altri… oppure no?”. Valli risponde: “Il naufrago ha detto tutti morti bruciati”. Ed è ciò che ancora oggi Valli e Mattei ripetono di aver sentito dalla voce di Bertrand, il mozzo miracolato. Ma è anche ciò che ha ripetuto in uno dei vari interrogatori con gli investigatori, dopo il disastro. Tanto che quell’espressione è finita poi anche nella requisitoria del pm.
Ma lui, Bertrand, oggi, nega: “Dalla radio comunicano che lei ha detto ‘Tutti morti bruciati'” gli dicono durante l’audizione della commissione. “Io non l’ho mai detto”. E ancora: “Ma lei l’ha mai detto ‘tutti morti’?”. “No”. Anzi, l’ex mozzo ricorda di aver detto di più agli ormeggiatori, appena tirato su dal mare: ha chiesto di rimanere lì con la barca perché ci potevano essere altre persone che erano rimaste in vita come lui. “Fermiamoci qui perché ci sono altri da salvare”. Ai commissari-senatori lo ripete 9 volte, anche con energia. Il suo racconto appare coerente con la scena dell’ambulanza: Bertrand – appena sbarcato dalla motovedetta – grida, si arrabbia, si dimena, sbatte le mani sulla portiera. Pronuncia parole in napoletano stretto, quasi incomprensibili: molte sono parolacce, bestemmie. E ripete una volta di più: “I miei amici”.
I suoi amici: in particolare Angelo Massa, 30 anni, di Castellammare di Stabia, marinaio di coperta, e Giovanni D’Antonio, 22 anni, di Torre del Greco, il cosiddetto giovanotto di coperta del Moby Prince. Con loro Bertrand tenta di salvarsi la vita. Vanno verso il garage della nave, salgono e scendono scalette, attraversano corridoi pieni di fumo scavalcando (forse) qualcuno che si è già accasciato a terra, si bagnano con una manichetta per limitare il calore. Operazioni che non si compiono in mezz’ora, cioè il tempo secondo cui erano tutti morti a bordo, come disse la sentenza del processo del “tutti assolti”, nel 1997. D’Antonio, anzi, fu l’ultimo a parlare con Bertrand. L’ultima conversazione. Avvenuta almeno 40-50 minuti dopo l’impatto, dice Bertrand. Ventisei anni dopo l’unico testimone può diventare determinante.