“Alexander Ahlbom e Mike Repacholi sono rispettivamente consulente dei gestori di telefonia cellulare e per l’industria elettrica. Dati questi conflitti di interesse e dato il giudizio precedentemente espresso sui lavori originali, il Ctu ritiene di prescindere dalle revisioni prodotte da questi autori e di riferirsi esclusivamente ai commenti Iarc”, e cioè l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. Sono quattro righe scritte dal dottor Paolo Crosignani, epidemiologo dell’Istituto nazionale dei Tumori di Milano e consulente tecnico d’ufficio, a spianare la strada alla sentenza del Tribunale di Ivrea che ha riconosciuto una rendita vitalizia da malattia professionale. Perché il medico nominato dal giudice Luca Fadda non si limita solo a dire che “la causa della malattia sia in misura più probabile che non da attribuire alle esposizioni derivanti dal lavoro svolto”, ma spiega anche perché ha deciso di scartare dalla sua perizia la letteratura scientifica “infettata” dall’industria del settore, alla quale si è finora spesso fatto riferimento durante le cause.
La storia di Roberto
Una decisione forte, supportata dalla cartella clinica dell’ex lavoratore della Telecom e degli studi della Iarc dal 2011 in poi. Un anno prima era iniziato il calvario di Roberto Romeo, dipendente Telecom che tra il 1995 e il 2010 si era occupato del coordinamento di una squadra d’intervento sulla rete. Trascorreva diverse ore al giorno al cellulare per un totale di “circa 840 all’anno” e la sua vita è trascorsa normalmente per quindici anni. Fino a quando non sono iniziati i primi dolori all’orecchio destro e gli è stato diagnosticato un tumore benigno al nervo acustico. Ecco quindi l’operazione: il cancro viene asportato, ma i medici sono costretti a rimuovere anche il nervo e Romeo perde l’uso dell’orecchio. Trascorsi due anni viene a conoscenza di una sentenza della Cassazione che stabiliva un legame causale tra l’uso del cellulare e il neurinoma, come scientificamente viene definito il suo tumore. Contatta l’associazione A.P.P.L.E. di Padova che si era occupata del caso e avanza la domanda all’Inail. La risposta dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro è negativa: non vi è nesso causale tra la malattia e le tante ore trascorse parlando al cellulare durante i suoi anni in Telecom.
Il processo civile
Così, nel 2015, la storia si trasferisce davanti al Tribunale del lavoro di Ivrea, dove Romeo viene assistito dagli avvocati Renato Ambrosio e Stefano Bertone. L’Inail insiste con la sua tesi, produce una lunga relazione e diverse osservazioni alla consulenza del dottor Crosignani, che però ribadisce di aver tenuto in considerazione le valutazioni della Iarc relative al 2011 e la Monografia pubblicata due anni più tardi dalla stessa agenzia dell’Organizzazione mondiale della sanità, dove si afferma che “sono state osservate associazioni positive fra l’esposizione a radiazioni a radiofrequenza da telefoni cellulari e gliomi e neuromi del nervo acustico”. E arriva a concludere che nel caso di Romeo “vi è l’associazione tra un tumore raro ed una esposizione altrettanto rara come l’utilizzo dal 1995 di telefonia cellulare ad elevate emissioni. La rarità della circostanza depone per una associazione causale”. E il giudice non ha dubbi: il 23% di invalidità di Romeo è colpa dell’uso intensivo del telefonino.
I legali: “Ignorata Legge quadro 2001. E’ arrivato il momento?”
“Per conoscere le motivazioni del giudice dovremo attendere ancora poco più di un mese. Pur nel pieno rispetto del suo lavoro, abbiamo ritenuto che fosse importante rendere nota la sentenza perché i giorni che trascorreranno nel frattempo saranno giorni di prevenzione persi – spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocato Bertone – Una sempre più corposa letteratura scientifica associa i campi elettromagnetici ad alcune malattie. Finalmente le evidenze sono talmente confortanti che, rispetto a quanto accaduto nel 2012, già in primo grado viene riconosciuta l’associazione”. Romeo dice di non voler “demonizzare l’uso del cellulare, ma credo sia necessario farne un uso corretto e consapevole”. A questo proposito, Bertone non ha dubbi: “Siamo nel pieno di una esorbitante illegalità della pubblica amministrazione. La Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici risale al 2001 – conclude il legale – Prevedeva che diversi ministeri promuovessero lo svolgimento di campagne di informazione e che le aziende fossero tenute a fornire le istruzioni per l’uso dei prodotti e informazioni sui livelli di esposizione. Nulla è mai stato fatto, al contrario di quanto avviene in Belgio, Francia, Irlanda, Finlandia, Regno Unito e India. Forse è arrivato il momento”.