Se non avessero riguardato la Rai, sempre soggetta alle attenzioni di tutti proprio per la sua natura di servizio pubblico, non avrebbero scandalizzato più di tanto gli elevati compensi delle star dell’azienda pubblica. Sono divenuti noti dopo le polemiche connesse all’introduzione per la legge del tetto di 240mila annui degli stipendi e, oggetto di quest’analisi, delle prestazioni artistico-professionali. Una soluzione anacronistica, da rivedere (non a caso il governo sta intervenendo), a un problema reale che richiede però un altro approccio.

Non a caso non vi sono state critiche a cifre anche più alte erogate da Mediaset a diversi big dello spettacolo. D’altronde, si sa che i costi “sopra la linea” delle produzioni audiovisive seguono un andamento costantemente crescente nella prospettiva di ricavi adeguati. Il meccanismo spesso s’inceppa quando i ricavi, in particolare quelli pubblicitari, si contraggono e sono allora i costi a dover essere riallineati in basso: è quanto accade periodicamente in tutti i settori dello spettacolo.

Una condizione per il funzionamento del sistema è che ci sia una vera concorrenza fra gli operatori, per permettere la selezione degli artisti così da calmierare i compensi: è ciò che manca nella tv, dove domina ancora il duopolio nel segmento della televisione generalista. Una star o un anchorman famoso preferisce ancora Mediaset o Rai, mentre le restanti tv sono considerate una sorta di ripiego.

Il “potere” dei divi della tv è determinato dal numero degli ascolti e di riflesso dei ricavi pubblicitari dei loro programmi. Per la Rai il calcolo si complica a causa della contemporanea presenza del canone, oltre alla pubblicità e del minore affollamento. Va inoltre ricordato che il risultato di un programma dipende da più variabili: dal palinsesto e dalla contro-programmazione; dall’entità delle spese promozionali; dagli autori e dall’apparato tecnico. Non va dimenticato che è la rete e non tanto il singolo programma a decretare il risultato di ascolto: i telespettatori scelgono la rete prima del programma. Sono innumerevoli i casi in cui la sostituzione di un conduttore non abbia nuociuto al programma.

Esperti di calcio hanno sostenuto che l’incidenza sui risultati di un allenatore spazia fra il 30 e il 70%. C’è da dire però che quelli che per comprovata capacità si avvicinano alla seconda fascia sono pochissimi. Lo stesso avviene nella tv: a prescindere dai pochi fuoriclasse degli studi televisivi, sono diversi quelli sopravalutati, spesso grazie al sostegno di potenti sponsor, come i tre-quattro procuratori che “dominano” la tv.

Nel 1993, il consiglio di amministrazione della Rai, allora presieduto da Claudio Demattè, richiese una consistente riduzione dei cachet e la ottenne. La Rai stava per fallire e la necessità del contenimento dei costi fu avvertita da tutti, al punto che anche il pagamento della tredicesima fu posticipato. Sono passati 25 anni e questi problemi non sono più stati affrontati. La Rai nel frattempo ha aumentato i compensi ai suoi “artisti” con la giustificazione di dover competere ad armi pari con i concorrenti (strano che i vertici della Rai rilevino in alcuni casi di essere membri di un’“impresa” e in altri di appartenere al “servizio pubblico”).

In conclusione, si può sostenere che il “tetto” sia una soluzione sbagliata, anche perché la questione vera non riguarda tanto l’entità dei compensi (seppure siano eccessivamente cresciuti) quanto la “perennità” di certe collaborazioni. Si potrebbe obiettare che proprio la lunga durata dei contratti di alcuni collaboratori è sintomatica del loro successo. Peccato che la mancanza del ricambio non permette di avere la controprova. Sarebbe quindi opera di buon senso se si provvedesse alla sospensione delle collaborazioni artistiche dopo un certo periodo di anni.

Il ricambio di personaggi che in alcuni casi sono sullo o dietro lo schermo da decenni non può che far bene alla Rai.

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