Il fatto che il Partito Democratico dell’era Renzi a Roma non partecipi alla manifestazione del 25 aprile non mi stupisce; sarebbe come se un vegano partecipasse alla sagra della salamella. Ma che in una scuola le famiglie arrivino a contestare agli insegnanti l’iniziativa di far cantare “Bella Ciao” all’interno di uno spettacolo sulla Costituzione è preoccupante. A denunciare questa situazione è una collega, Rosaria Valente che ha scritto una lettera pubblicata oggi su Repubblica: “Insegno in una scuola primaria, stiamo allestendo uno spettacolo sulla Costituzione, ripercorrendo la storia d’Italia. Le famiglie hanno contestato la presenza di “Bella Ciao”, sostenendo che è un canto “rosso” e che, per par condicio, avremmo dovuto inserire anche “Faccetta nera”.
Nulla può fermare l’ignoranza in questo Paese.
Intanto a questi genitori ma anche a quei maestri che a differenza della maestra Rosaria, non parlano di “Bella ciao” per lo stesso timore, andrebbe suggerita la lettura del bel libro Bella ciao (Add editore) di Carlo Pestelli. Qualche volta prima di aprire bocca qualcuno dovrebbe studiare. Nel testo Pestelli ci ricorda come la nota canzone abbia origini che non sono solo partigiane: “Nell’agosto del 1962 – scrive Pestelli – a Gualtieri Roberto Leydi e Gianni Bosio intervistano l’ex mondina Giovanna Daffini che intona un canto che ha la stessa melodia di “Bella ciao” ma, a sorpresa, il testo non tratta di invasori, bensì della durezza del lavoro delle mondariso, e dichiara d’averla imparata negli anni Trenta, in risaia”.
Questa canzone non è solo dei partigiani ma fa parte del nostro patrimonio culturale. Certo l’hanno cantata anche i partigiani ma è una canzone che va oltre i colori. Basterebbe che questi genitori pensassero che l’inno partigiano più diffuso “Fischia il vento” – come ricorda Pestelli – contiene l’esplicitazione in senso socialista alla “rossa bandiera”. La paura del “rosso” (ormai scolorito in Italia) è solo di chi non ha letto il testo di “Bella ciao”.
Una canzone che è andata oltre i nostri confini. Resta per me indimenticabile quella volta che a Kolasin, in Montenegro, incontrai un’anziana donna ultranovantenne che sapeva a memoria l’intero testo. Da qui, da questa canzone conosciuta da ogni bambino serve ripartire per passare il testimone in una scuola dove troppo spesso si dimentica questo ruolo fermandosi a studiare solo gli Assiri e i Babilonesi, i Fenici e i Sumeri.
In questi giorni Mattia Feltri sulla Stampa ha aperto un interessante dibattito commentando nel suo “Buongiorno” l’incontro tra la ministra Valeria Fedeli e Bernard Dika, il presidente del Parlamento degli studenti di Toscana che chiedeva una modifica dei programmi inserendo più attualità. Richiesta accolta dalla Fedeli. Feltri, nel suo articolo giustamente ricorda che “se non si studiano i babilonesi non si capisce il Medio Oriente oggi, se non si studia Odino non si capiscono nazismo e razzismo” ma compie un errore dovuto al fatto che è un ottimo papà e giornalista ma non fa l’insegnante: “La scuola non informa, istruisce. Quindi meno babilonesi e più attualità è una sciocchezza”. E lo stesso Luciano Canfora che stimo e apprezzo (ma che forse non mette piede in una scuola primaria o media da troppo tempo) sempre su La Stampa, intervenendo nel dibattito, scrive: “I lamenti dei ragazzi sono dettati dalla voglia di conoscere, e da questo punto di vista sono encomiabili, però non bisogna dimenticare che non è del tutto vero. Fino al 1969 si arrivava alla prima guerra mondiale, oggi i manuali sono ben fatti, coprono tutto il 900, sta ai professori scandire il programma nel modo giusto per concluderlo”. Appunto, sta ai professori, caro Canfora.
Faccio rispondere a Elisa Papa, una ragazza 19enne di Galatone, incontrata in via D’Amelio: “Nel primo anno di scuola superiore il programma di storia prevede lo studio delle scimmie dall’homo habilis fino a Lucy, poi con il passare degli anni si passa agli Assiri, Sumeri e Babilonesi, all’antica Grecia, poi l’antica Roma, già fatte alle elementari e alle medie, intanto gli anni passano, arrivi in quinto superiore a dover fare l’unità d’Italia che non si è riuscita a finire in tempo l’anno precedente, prima e seconda Guerra Mondiali, la Russia, i vari totalitarismi; verso maggio quando già un maturando ha l’acqua alla gola facciamo un po’ di costituzione italiana, i punti che un cittadino italiano dovrebbe sapere come i punti della propria carta d’identità; arriviamo a giugno, si arrancano le ultime nozioni per ampliare un po’ il programma da presentare alla commissione e il gioco è fatto”.
E allora certo i Babilonesi e i Sumeri sono necessari così come gli Assiri, i Greci. Ci permettono di comprendere la storia d’oggi, persino l’arte, il perché abbiamo un alfabeto fatto in questo modo e altro ancora ma non possiamo pensare di voltare le spalle al 25 aprile perché vanno fatto i Sumeri, di non cantare “Bella ciao” in classe perché non è nel programma. Chi scrive ha spiegato i Fenici e gli Egiziani con oggetti, con filmati, con il testo, con il racconto, con Focus Junior ma anche con il quotidiano in mano. Molti, troppi, insegnano travasando contenuti che vengono poi vomitati e dimenticati senza mai guardare sul calendario che giorno è.
In questo Paese c’è un’urgenza: comprendere che la scuola forma dei cittadini e lo fa istruendo, segnando loro le strade (insegnare) ma anche informando.