In questa lunga vigilia di elezioni francesi c’è stata la tendenza a considerare l’ascesa di Marine Le Pen come una specie di calamità naturale, prodotto inevitabile dello spirito dei tempi che spinge i “popoli” a invocare sovranità contro le tecnocrazie. Non è esattamente così. Dietro l’ascesa del Front National ci sono una serie di spiegazioni anche e soprattutto interne di cui vale la pena tenere conto per interpretare quello che succederà oggi e, soprattutto, al secondo turno.
Come ricostruiscono Martin Quencez e Martin Michelot per il German Marshall Fund, sono state le scelte dei partiti tradizionali (gollisti e socialisti) ad aver aperto lo spazio per il FN, che così ha potuto capitalizzare al massimo la tattica di Marine, quella della dédiabolisation, la normalizzazione del Fronte, che ha cercato di offuscare quelle caratteristiche (antisemitismo, nazionalismo estremo, a tratti perfino liberismo reaganiano) che lo avevano reso invotabile per decenni.
Nel 2002 Jean Marie Le Pen arriva al secondo turno delle elezioni presidenziali, lo shock è notevole e influenza la strategia elettorale di Nicolas Sarkozy, leader dei conservatori che all’epoca si chiamavano Ump. La sua strategia è svuotare il bacino elettorale del Front National, spostandosi a destra sui temi della sicurezza. Ci riesce: Marine Le Pen ottiene solo il 10,44 per cento al primo turno, contro il 16,86 del padre cinque anni prima. Ma in questo successo c’è anche la premessa del disastro per Sarkozy: è impossibile compiacere allo stesso tempo le frange più estreme, reazionarie, dell’elettorato e al contempo presidiare il centro, decisivo per vincere e per governare. Infatti gli elettori del Fronte che si erano spostati verso l’Ump lo mollano subito: nel giro di un anno il consenso di Sarkozy in questo gruppo passa dall’88 al 21 per cento.
Sarkozy inizia a inseguire il voto estremo, spostandosi sempre più a destra su immigrazione e sicurezza, seguendo i consigli del suo consigliere Patrick Buisson, ma non funziona: nel 2012 perde 2 milioni di voti e l’Eliseo, contro il socialista François Hollande. Ma un risultato lo ha ottenuto: rendere il dibattito pubblico più adatto alla durezza del FN. Se certe cose le dice Marine Le Pen sono estreme ed esecrabili, ma se arrivano dall’Eliseo diventano legittime. Se i Républicains parlano come quelli del FN, tanto vale votare chi è davvero estremo. E infatti le primarie del partito gollista sono state vinte da un candidato che ha seguito un’altra e più classica impostazione, François Fillon, che parlava alla Francia profonda il linguaggio di un’altra epoca, di una destra solida e determinata ma non aggressiva. Fillon è poi rimasto vittima dei propri scandali, riuscendo però a mantenere salda la presa sul partito, senza cedere il posto al suo sfidante interno Alain Juppé.
Anche Hollande ha lavorato per Marine Le Pen: vince una surreale campagna elettorale presentandosi come il nemico del “mondo della finanza”, avverte che “c’è in gioco la sovranità della Repubblica rispetto ai mercati e la globalizzazione”. Sarà una tragedia politica, tra leggi imposte con forzature in Parlamento, promesse non mantenute, con un banchiere della Rothschild come ministro, il giovane Emmanuel Macron, e un premier come Manuel Valls all’inseguimento dell’agenda securitaria della destra.
Hollande ha anche assecondato il processo di riduzione del presidente a un semplice capo del governo, invece che incarnazione della Repubblica. Aveva cominciato Sarkozy, definendo François Fillon – allora premier, ora candidato presidenziale – un semplice “collaborator”. Ha continuato Hollande, incapace di innalzarsi sopra le difficoltà di governo per mantenere una statura istituzionale. Il risultato, forse inevitabile dopo che la durata del mandato presidenziale è stata accorciata a cinque anni per farla coincidere con la legislatura dell’Assemblea nazionale, è che la politicizzazione della presidenza aumenta il senso di insicurezza, viene meno uno dei punti di riferimento del Paese, si perde uno dei pochi simboli di unità necessari in uno Stato che si fonda sulla religione civile della Repubblica. E’ un fenomeno che abbiamo visto anche noi in Italia, sia pure con altre premesse e altre conseguenze, nel passaggio da Carlo Azeglio Ciampi a Giorgio Napolitano.
Un presidente debole in patria risulta anche poco efficace all’estero, a cominciare dall’Europa. E questo spiega, almeno in parte, perché i francesi siano così scettici sull’Ue. Anzi, sono addirittura i più negativi dopo i greci, stando a un’indagine del Pew Research Center.
Eppure potrebbe essere eccessivo attribuire alla questione sovranista – e dunque a Ue e globalizzazione – l’ascesa del Front National. Le spiegazioni riconducibili alla crisi di credibilità delle istituzioni domestiche sembrano avere un peso rilevante, visto che i francesi ne hanno un’opinione ancora più negativa che di quelle europee. Secondo una ricerca dell’Istituto Jacques Delors e Demos, l’80 per cento dei francesi non ha fiducia nel Parlamento, l’84 per cento nel governo. Parlamento europeo e Commissione sono alla parti, 82 per cento di francesi che danno un giudizio sotto il cinque in una scala di fiducia da 1 a 10.
E se si considerano le priorità degli elettori francesi dei tre partiti principali, non ci sono differenze così nette riguardo all’Europa. Anzi, chi vota Républicains sembra più determinato degli elettori del Front National a recuperare parte dei poteri ceduti all’Ue.
I problemi della Francia, quindi, non sono colpa dell’Europa e neppure di Marine Le Pen. C’è una crisi di fiducia nello Stato, nella politica, nelle istituzioni, nei partiti. Comunque vada il voto di oggi, qualunque sia il risultato del Front National (o della sinistra radicale di Jean Luc Mélenchon), queste crepe nella tenuta della Repubblica non spariranno.