Alla sbarra ci sono capi-clan del calibro di Pasquale Condello detto il "Supremo", Giuseppe De Stefano (il figlio di don Paolino ucciso nel 1985 all'inizio della seconda guerra di mafia), Giovanni Tegano e Pasquale Libri, fratello del più noto boss defunto Mico Libri. Alcuni erano collegati in videoconferenza perché detenuti al 41 bis
Il maxiprocesso “Meta“ regge anche in appello. Adesso manca solo il sigillo della Cassazione per i quattro principali boss di Reggio Calabria. Dopo tre giorni di camera di consiglio, i giudici della Corte d’Appello hanno confermato in sostanza le decisioni dei colleghi di primo grado. Alla sbarra ci sono mammasantissima del calibro di Pasquale Condello detto il “Supremo”, Giuseppe De Stefano (il figlio di don Paolino ucciso nel 1985 all’inizio della seconda guerra di mafia), Giovanni Tegano e Pasquale Libri, fratello del più noto boss defunto Mico Libri.
Alcuni erano collegati in videoconferenza perché detenuti al 41 bis.
(Nella foto: Giuseppe De Stefano) Per tutti condanne pesantissime al termine del processo nato da un’inchiesta dei carabinieri del Ros che nel 2010, guidati dal colonnello Valerio Giardina e dal maggiore Gerardo Lardieri con il coordinamento del sostituto procuratore della Dda Giuseppe Lombardo, hanno inferto il colpo più duro alla ‘ndrangheta reggina dai tempi del processo “Olimpia“.
A partire da Giuseppe De Stefano, ritenuto il “capocrimine” al quale sono stati inflitti 27 anni di carcere. La Corte d’Appello ha confermato in sostanza la sentenza di primo grado. Quella di De Stefano è la pena più dura per gli imputati del processo “Meta” che hanno scelto il rito ordinario. Vent’anni di reclusione, invece, per i boss Pasquale Libri, Pasquale Condello che sta già scontando diversi ergastoli così come Giovanni Tegano. Sono loro, secondo i magistrati, il vertici della ‘ndrangheta che si sono spartiti Reggio dopo la seconda guerra di mafia.
Una divisione che è stata possibile ricostruire dopo un’indagine i cui pilastri poggiano sulle intercettazioni telefoniche e sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia come Nino Fiume, Paolo Iannò, Giovanbattista Fracapane e Roberto Moio. Domenico Condello, detto “Gingomma”, nipote del boss di Archi, è stato condannato a 20 anni di carcere. Anche per lui ha retto l’impianto accusatorio della Dda. Per i magistrati, infatti, “Gingomma” è l’elemento di raccordo tra i boss e il resto dell’organizzazione. Una posizione particolare è quella di Cosimo Alvaro. Il capocosca di Sinopoli è stato condannato a 8 anni di carcere. Nell’ottobre 2006, Alvaro partecipò a una festa per l’anniversario dei genitori di due imprenditori condannati per mafia. Una festa in cui oltre al boss c’erano molti politici locali tra cui, come emerge in un’informativa del Ros, anche l’ex sindaco di Reggio e governatore della Calabria, Giuseppe Scopelliti.
Tra gli altri, sono stati condannati anche Pasquale Bertuca (21 anni), Giovanni Rogolino (18), Nino Imerti detto “Nano feroce” (14), Natale Buda (14), Francesco Creazzo (8), Nino Crissolo (4 anni e 3 mesi) e l’ex sindaco di San Procopio Rocco Palermo (3 anni e 4 mesi). L’inchiesta e il processo “Meta” sono state propedeutiche alle recenti operazioni che hanno travolto la città di Reggio. Se nel 2010, infatti, è toccato all’ala militare e imprenditoriale della ‘ndrangheta finire dietro le sbarre, nel 2016 con l’operazione “Mamma santissima” e il processo “Ghota” la Dda ha colpito la componente segreta delle cosche. Quelli che il pm Lombardo ha più volte definito gli “invisibili”, soggetti mafiosi dalle “menti raffinate” che tirano le fila dei rapporti tra ‘ndrangheta, politica e massoneria.