La lacerante biografia di Uber Pulga, nato a Felonica (Mantova) nel 1919, è raccontata in un libro, Partigiano in camicia nera (Chiarelettere), scritto dal giornalista Alessandro Carlini. Opera letteraria che rifugge sembianze e struttura di un possibile saggio storico e che invece si trasforma in romanzo lucido ed appassionato
Un partigiano in camicia nera. Sì, proprio così. L’irriducibile divisione nazionale, civile e politica dell’Italia novecentesca sembra essere cucita addosso a Uber Pulga. Quando nel suo penultimo capitolo di vita, all’incirca fine gennaio 1945, in un deposito militare di Reggio Emilia, sta rubando mitragliatrici, bombe a mano, pistole e lanciarazzi, per portarle ai partigiani su un collina, Pulga veste la sua camicia nera. Quella d’ordinanza, quella dov’erano appese onorificenze da boia di guerra, quella da spia e traditore. Non c’è nessun mascheramento. Pulga non si spoglia di quello che è, ed è stato, per indossare nuovi panni. L’ufficiale fascista di Salò sceglie la “libertà”, il “futuro”, il “mondo nuovo”, senza nascondere il suo passato. E così viene arrestato dai repubblichini, torturato, messo al muro, ucciso con le pallottole di bersaglieri e nazisti. Voltagabbana? Opportunista? Doppiogiochista? La lacerante biografia di Uber Pulga, nato a Felonica (Mantova) nel 1919, è raccontata in un libro, Partigiano in camicia nera (Chiarelettere), scritto dal giornalista Alessandro Carlini. Opera letteraria che rifugge sembianze e struttura di un possibile saggio storico e che invece si trasforma in romanzo lucido ed appassionato. Dieci capitoli, dieci tappe del Pulga adulto dal 1942 al 1945, dieci quadri che sembrano gli antichi pannelli disegnati di un cantastorie.
Pulga è imbarcato come caporale del Regio esercito nell’aprile del ’42. Va, convinto e feroce, alla conquista dello “spazio vitale” inneggiato dal Duce. Marcia verso Est, in bocca ai comunisti slavi. Bestie, carogne, pidocchi. Pulga assaggia la paura dell’essere ucciso senza perché, all’improvviso, e quindi decide di uccidere per primo. Spara, sgozza, incendia case, e avanza nella storia provocando morte e odio. Flashforward: siamo nei dintorni dell’8 settembre 1943. L’armistizio Uber lo vive in Sardegna su una camionetta del XII battaglione dei paracadutisti della Nembo. I ‘ribelli’ che stanno coi tedeschi corrono verso la Corsica e conservano sotto un telone il corpo del loro comandante che avrebbe voluto arrendersi ma che è finito ucciso da una mitragliata di piombo probabilmente “amico”. Ancora un salto in avanti: ottobre 1944, Pulga è arruolato dal servizio segreto delle SS, imparato il tedesco diventerà una spia, finto disertore altoatesino, tra le fila dei partigiani reggiani. Pochi giorni dopo, il nuovo capitolo, nascosto in un casa isolata di campagna da un distaccamento partigiano. Accudito, accolto come amico, destinato al cruciale compito di armiere, Pulga sabota infine un’azione armata della Resistenza. Due partigiani in fuga ne intuiscono la vera identità, intanto Uber assieme ai militi delle Brigate Nere tortura, uccide, e fa uccidere, proprio come faceva in Jugoslavia, due partigiani che gli erano stati a fianco. E ancora: tra la fine del dicembre ’44 e inizio gennaio ’45 diventa sottotenente del divisione Italia nel parmense. Incontra perfino Mussolini che lo promuove di grado personalmente. Solo che Pulga di fianco al mito, smunto ed emaciato, niente più pupille roteanti dal balcone, sente puzza di stantio e di fine imminente. Gli ideali di libertà e di una società giusta ed egualitaria carpiti tra i partigiani Rus e Noli non sono passati invano. L’odio fascista verso il nemico si trasforma prima in tormentato e mostruoso senso di colpa, poi in aiuto concreto per una nuova causa. Uber salta ancora il fosso e diventa anche solo per poche settimane un partigiano. Ed eccolo lì nel tentativo di rubare armi ai nazifascisti mentre veste la camicia nera, che viene riempito di botte dalle Brigate Nere e infine giustiziato.
Solo un prete, Don Augusto Sani, il cappellano militare, raccoglie la confessione di Uber Pulga in punto di morte. Un lungo flashback che sembra un film srotolato alla maniera del Lucien Lacombe di Louis Malle. Dolore, pena e incertezza che richiamano i cumuli di macerie dell’Italia distrutta dalla guerra civile di un Marco Laudato di Tiro al Piccione, come quella febbrile insofferenza del Partigiano Johnny di Fenoglio. “C’è una memoria e una letteratura resistenziale e, negli anni più recenti, ne abbiamo avuta una di Salò. Mancava una vicenda che le contenesse entrambe, quelle due componenti conflittuali della nostra storia, senza scivolare nel revisionismo”, ha spiegato in un’intervista Alessandro Carlini che ha raccolto prove documentali per almeno quindici anni, tra cui la lettera originale del cappellano Sani, e ha ricostruito la vicenda di Pulga, cugino di secondo grado di suo nonno Franco, alla cui memoria è dedicato il libro.
Carlini è in grado di far vibrare violenza e redenzione dell’agire di Pulga, centellinandone la trasformazione etica e sociale, scivolando nello stridore dell’avventura insanguinata della guerra, e rendendolo una sorta di prisma, specchio e controluce di una pacificazione politica e storica che in Italia non è ancora arrivata . “Guardami bene, ti dico, guardami bene”, si rivolge il Pulga, inventato grazie ad un lirismo da grande romanziere da Carlini, all’ultimo partigiano che lo accoglie da ufficiale realmente pentito che vuole aiutare la Resistenza. “Questo è il brutto muso dell’Italia cattiva e sconfitta, anche se mi odi devi ricordarti che sono italiano come lo sei tu e se volete essere diversi prendete da noi il meno che potete. Se mi ammazzi, qui, così, diventi uguale a me, da Abele un maledetto Caino. Uguale a me, che anche se mi tolgo la divisa come vuoi tu, se la brucio, come vuoi tu, se la strappo e la riduco in mille pezzi, non cambia niente. Ho il cuore nero e così resta. Io sono il perdente e il rinnegato. Io pago per le mie colpe, che non ti dico, perché ti chiedo di non pagarle al posto mio. Dammi solo modo di rinnegare l’imboiatura di un regime che ci ha lasciato solo il bel gesto dell’ammazzarci. Almeno se devo farlo lo faccio per la causa che ora mi ordina la coscienza e non più un dittatore, un generale, o un tedesco”.