Dice il paradosso del cornuto: “Ciò che non hai perduto lo hai: non hai perso le corna, dunque le hai”. Nei weekend primaverili emergono tutte le insufficienze delle autostrade italiane, soprattutto in alcuni tratti già critici ogni giorno dell’anno. La rete autostradale italiana è lunga meno di 7mila chilometri, assai meno estesa di quella francese (più di 11mila km). È meno della metà di quelle tedesca e spagnola (entrambe circa 14mila km). E molto più antica di tutte le altre, giacché l’ammortamento degli investimenti, realizzati in Italia in prevalenza tra gli anni ‘60 e ‘70 dello secolo scorso, era stato in buona parte completato già prima della privatizzazione. Insieme a quella francese, è la più remunerativa: si incassano oltre 800mila euro per chilometro di autostrada.
Se padri e nonni hanno costruito le autostrade e il costo di ammortamento è bell’e morto e sepolto, perché non si fanno nuovi investimenti significativi, anche alla luce degli incassi? Tutta colpa dei ‘No-Tutto’ che rompono le scatole e controllano le virgole di ogni progetto? Se tutto si blocca per le virgole, accade pure che ogni progetto abbia sempre qualche virgola che non torna. E la morte della competenza a favore di altre virtù progettuali ha prodotto qualche effetto, compreso quello dei progetti mal fatti.
Qualche gufo sospetta che progetti mal fatti e irrealizzabili servano talvolta a dilazionare gli investimenti, promessi o previsti, concentrando il business sullo sfruttamento della rete esistente. Ma i gufi vanno assimilati all’uccello del malaugurio di Ovidio e di John Keats, tutte le volte che il timbro grave del suo verso cupo si ode un po’ troppo forte: le loro critiche vanno respinte al mittente come esito di un pensiero antiquato e frutto dell’incapacità di vivere il presente. Eppure: “Il mio solo torto è che ci vedo chiaro di notte!“, rispose a un intervistatore l’archeologo Salvatore Settis, chiosando la filastrocca di un oscuro poeta francese del Settecento che avrebbe messo in bocca a un ipotetico gufo queste parole.
L’Autosole, lunga quasi 760 km, fu costruita dallo Stato in 3070 giorni, poco più di 8 anni. Nell’era del ‘privato è bello’ la costruzione della Variante di Valico di 32 km ha richiesto circa 11 anni, dal 2004 al 2015. Anzi, se la prima pietra fu invero posta il 10 settembre 2000, sarebbero 5581 giorni. E il primo progetto della variante risale al 1982, opera di Pier Luigi Spadolini: 32km in 32 anni.
Un documento ufficiale della Repubblica, l’Indagine conoscitiva in materia di concessioni autostradali resa come testimonianza dalla Banca d’Italia alla Camera dei Deputati nel giugno 2015, avrebbe dovuto suscitare qualche interrogativo, muovere qualche coscienza, incoraggiare qualche rimedio alle luce di “una certa opacità regolamentare” del sistema. E se la Banca d’Italia, che non è un’associazione di consumatori rabbiosi, annota che “le vigenti concessioni, tutte rinnovate senza passaggio per una gara pubblica, si caratterizzano per durate residue estremamente lunghe”, non varrebbe la pena chiedersi se ‘privato’ sia davvero così bello, come invece viene religiosamente affermato da vent’anni? Vale la pena privatizzare un monopolio? Alla faccia perfino di padri fondatori della patria come Giovanni Lanza e Quintino Sella, i quali, pur essendo di purissima fede liberale, furono sempre contrari alla privatizzazione dei monopoli.
Che l’autostrada, così come la strada ferrata, sia un monopolio non ci sono dubbi: da Torino a Milano non posso scegliere tra due autostrade, una bella e scorrevole, ma cara, l’altra un po’ sconnessa, ma economica. Come alternativa posso solo prendere la Statale, mettendo in conto una seduta di psicoterapia; oppure in treno, ma stanno sopprimendo gli interregionali; o magari decidere di non andarci proprio. Insomma, l’unica scelta realistica è l’opzione nulla.
In apparenza, il prezioso documento della Banca d’Italia non ha mosso un pelo alla politica. Ma non ha neppure incuriosito né esortato la gente a sollecitare la politica affinché veda e provveda. In brasiliano “a gente” vuol semplicemente dire “noi”. La gente siamo noi, che non abbiamo finora perduto le corna. E dunque le abbiamo. Quando ce ne accorgeremo?