Intervistato dalla Reuters il leader della Casa Bianca non usa giri di parole: “C'è rischio serio di conflitto con la Corea del Nord”. E poi dalle tasse all’uscita dal trattato Nafta al Medio Oriente, ecco i reali risultati della nuova amministrazione. Lui continua a darsi una "A", ma i risultati non brillano. Il peggio? Sul fronte delle politiche ambientali
Cento giorni sono bastati, in cima ai pensieri di Trump più che l’America c’è la Corea del Nord. Tanto è bastato perché nelle mani del 45esimo presidente Usa la tensione di sempre subisse un’escalation senza precedenti che per entrambi i leader risponde anche a esigenze di propaganda interna. Donald Trump accoglie alla Casa Bianca i giornalisti della Reuters per fare il bilancio dei primi 100 giorni e parte da lì, dai venti di guerra. Non usa giri di parole: la “possibilità” che esploda “un grande, grande conflitto, c’è assolutamente”. Parole che portano la mente degli americani indietro nel tempo e lontano nello spazio, ai conflitti che hanno segnato (e unito o diviso) la loro Storia e a 7mila miglia da Washington. Anche a Filadelfia e San Diego, difficile si parlerà d’altro nei prossimi giorni. Meno, sicuramente, del reale bilancio dei primi tre mesi di era Trump. Un tempo breve nel quale si sono però già palesati i limiti delle ambizioni e delle promesse del magnate al comando che solo un nemico esterno può declassare agli occhi del popolo americano.
La data ufficiale è domani, sabato 29 aprile. E’ il giorno in cui Trump festeggia i suoi primi 100 giorni di governo suggellati, nella propaganda della Casa Bianca, da un clamoroso errore storico. In un documento inviato ai giornalisti, Washington sostiene che Trump abbia firmato in questo lasso di tempo trenta ordini esecutivi, “più di Franklin D. Roosevelt”, che ne avrebbe firmati nove. In realtà, Roosevelt ne firmò novantanove. Nove sono i più importanti, riportati sul sito dell’American Presidency Project che è stato probabilmente preso come fonte dai collaboratori del presidente. Senza però controllare.
L’abitudine di prendere come riferimento poco più di tre mesi per giudicare il successo dell’azione di governo risale proprio a Roosevelt e da allora è stata applicata a tutti i presidenti Usa. Lo stesso Trump, in campagna elettorale, ne aveva fatto ampiamente cenno. Nei giorni finali della campagna elettorale l’allora candidato chiese alle folle dei suoi fan, in North Carolina, Florida, Minnesota, Pennsylvania, di immaginare “cosa potremo realizzare nei primi 100 giorni della mia amministrazione”. E quando a Cleveland Trump accettò la nomination repubblicana, il futuro presidente disse di voler pretendere da ogni ufficio del governo “una lista dei progetti inutili da eliminare nei miei primi 100 giorni”.
Da allora è successo qualcosa. In un tweet, venerdì scorso, Trump ha definito “ridicola” l’abitudine dei 100 giorni. Magari ha cambiato idea. O magari i risultati di questi primi 100 giorni non sono così fulgidi come lui si attendeva, anche se giovedì 27 in un’intervista al Washington Examiner ha dichiarato che “si darebbe una A“. Gran parte dell’azione di Trump si è dispiegata attraverso ordini esecutivi – che non devono passare per il Congresso – a riprova di come il presidente non abbia ancora trovato un modus vivendi con deputati e senatori. E delle ventotto leggi approvate dal 20 gennaio, tredici cancellano alcuni degli ultimi atti della presidenza Obama e altre difficilmente passeranno alla storia o cambieranno davvero la vita degli americani; tra queste, c’è la dedica di una clinica per veterani e l’atto di nomina al Pentagono per il generale James Mattis.
Negli ultimi giorni, forse per contrastare le inevitabili critiche e polemiche, Trump si è lanciato in una campagna di annunci clamorosi e cose da fare. Ciò non toglie che manca, sinora, un atto davvero importante e che su molte delle questioni affrontate in campagna elettorale – commercio, sanità, veterani, nucleare iraniano, Medioriente, lavoro, crisi degli oppioidi – permane un clima di incertezza o assenza di proposte. Ecco comunque, punto dopo punto, alcuni dei temi in campo.
Tasse – A ogni presidente repubblicano piace offrire consistenti tagli alle tasse. Trump non fa eccezione. Il fatto è che la paginetta con cui Steven Mnuchin e Gary Cohn si sono presentati davanti ai giornalisti per l’annuncio della riforma fiscale dà scarsissimi dettagli su ciò che davvero succederà. Ci sono misure – come il taglio dal 35 al 15 per cento delle imposte sul reddito d’impresa – che favoriscono il mondo degli affari. Ce ne sono altre – per esempio la riduzione da sette a tre delle fasce di reddito, senza però precisare i redditi contenuti in ogni fascia – di cui ancora non si indovinano gli effetti. Ce ne sono altre ancora – come la cancellazione della tassa di successione – di cui invece si indovinano gli effetti: favorire gli strati più ricchi della popolazione, Trump incluso. A parte i possibili contraccolpi negativi a livello elettorale – la riforma fa molto poco per aiutare i ceti popolari che hanno scelto Trump – c’è ora il percorso politico che non è scontato. La riforma delle tasse deve infatti passare per il Congresso e l’iter si preannuncia burrascoso.
Sanità – E’ la sconfitta più bruciante per Trump. L’obiettivo di cancellare l’Obamacare era stato annunciato in campagna elettorale. Una riforma – che eliminava l’obbligatorietà dell’assicurazione sanitaria – è poi stata precipitosamente inviata al Congresso e altrettanto precipitosamente ritirata. Soprattutto i settori più conservatori, quelli che fanno capo al Freedom Caucus, si sono rifiutati di dare il via libera. Nelle ultime ore sembra che un’altra riforma stia prendendo forma alla Camera, ma resta l’incertezza su quello che farà il Senato e tutta la questione resta in alto mare.
Politica estera – L’attacco alla base aerea di Al Shayrat in Siria e la bomba fatta esplodere in Afghanistan hanno mostrato un’attitudine più interventista di questo presidente rispetto al precedente; soprattutto, hanno mostrato la tendenza a lasciar mano più libera ai militari. Altre azioni si sono concluse in modo disastroso. Il primo raid ordinato da Trump nello Yemen si è concluso con l’uccisione di una trentina di civili. A parte le azioni militari, quella che sembra mancare è una visione di politica estera. I rapporti con la Russia sono ulteriormente peggiorati; l’Europa è ormai lontana e sospettosa; il conflitto mediorientale (affidato a Jared Kushner, il genero senza esperienza internazionale che se ne fece una inserendo la parola “China” su Amazon.com) non ha fatto significativi passi in avanti; con la Corea del Nord si procede tra minacce, richieste di intervento cinese e clamorose gaffe (quando Trump parlava della potente “armada” diretta verso la penisola coreana, la flotta americana prendeva parte a esercizi navali nell’Oceano Indiano). Quanto al nucleare iraniano, la settimana scorsa l’amministrazione ha annunciato una “revisione tra agenzie” che con ogni probabilità insabbierà per qualche mese il problema.
Ambiente – E’ probabilmente il settore in cui Trump sta lasciando il segno più durevole. Nell’“America First Energy Plan”, reso pubblico il giorno dell’insediamento, non veniva fatto alcun cenno all’energia rinnovabile. Trump ha poi proseguito nelle sue politiche ambientali con: due ordini esecutivi che fanno ripartire i controversi oleodotti Keystone XL e Dakota Access; il congelamento di nuove assunzioni e borse di studio dell’Environmental Protection Agency (Epa), per cui è previsto un forte taglio dei finanziamenti; la nomina alla guida della stessa agenzia di Scott Pruitt, un antico nemico di Epa per cui il diossido di carbonio non è la principale causa di inquinamento; un altro ordine esecutivo che ordina la revisione delle norme decise da Barack Obama in tema di protezione delle acque; la revoca del bando alle munizioni contenenti piombo sulle terre federali che sempre Obama aveva imposto (e che non piaceva alla National Rifle Association, la lobby delle armi); un nuovo ordine esecutivo firmato il 28 marzo (“Promoting Energy Independence and Economic Growth”) che dà inizio allo smantellamento del Clean Power Plan, sui limiti alle emissioni inquinanti delle industrie energetiche; la revoca del bando all’uso in agricoltura del Clorpirifos, un pesticida vietato dal 1965. Si tratta di un corpo sostanzioso di norme che dovrebbe portare all’abbandono degli accordi sul clima di Parigi e che semina preoccupazione tra scienziati e ambientalisti. Le politiche di Trump sui cambiamenti climatici sono state clamorosamente contestate durate la March for Science di Washington il 22 aprile.
Intercettazioni – Trump aveva promesso un rapporto “entro novanta giorni” dalla sua entrata alla Casa Bianca sulle presunte intercettazioni russe durante la campagna elettorale 2016. Un altro rapporto era stato anticipato su altre presunte intercettazioni, quelle dell’amministrazione Obama nella Trump Tower. E di un’altra inchiesta sulle frodi elettorali aveva parlato il vice presidente Mike Pence. Di nessuna delle tre indagini si ha notizia.
Attacco al Nafta – E’ stato un cavallo di battaglia di Trump in campagna elettorale. L’attacco all’Accordo di libero scambio nord-americano si è innestato sulla retorica anticinese in tema di bilancia commerciale (“la Cina ci stupra”, diceva Trump). La retorica è stata presto abbandonata e la Cina è diventata “un grande alleato”. Stesse oscillazioni sulla questione del Nafta. Oggi la Casa Bianca dice di pensare ad abbandonare l’accordo con Messico e Canada, ma a fine marzo parlava di cambiamenti “minimi” che avrebbero lasciato in vita le parti più controverse dell’accordo (per esempio il processo detto “Investor State Dispute Settlement” che permette agli investitori internazionali di fare causa ai governi quando i loro interessi vengono toccati, senza che le sentenze siano soggette ad appello). L’impressione è che il Nafta resterà un oggetto sventolato da Trump – con una buona dose di retorica ma pochi risultati – di fronte ai settori più popolari del suo elettorato.
Il Muro – Per tutta la durata della campagna elettorale, Trump ha fatto della costruzione del muro con il Messico la promessa più dirompente. Il muro, spiegava Trump, lo avrebbe dovuto pagare il governo messicano. Nei primi giorni di presidenza Trump ha interrotto bruscamente un telefonata con Enrique Peña Nieto e ha fatto saltare una visita del presidente messicano. La richiesta era sempre la stessa: che il Messico pagasse. Non se ne è saputo più nulla. E’ quindi sembrato che la proposta fosse quella di finanziare il muro attraverso l’aumento dei dazi; possibilità scartata perché si sarebbe abbattuta sui consumatori. L’ultima trovata è stata inserire il finanziamento per il muro (21,6 miliardi, secondo alcuni esperti) nella legge di bilancio. Anche a questo il Congresso ha detto no. L’unica cosa cui i repubblicani hanno acconsentito è un aumento della spesa per la sicurezza. Magra consolazione per chi voleva innalzare un “bellissimo muro” al confine meridionale.
Bando all’immigrazione – Due diversi ordini esecutivi, differenti interpretazioni (“si tratta di un bando ai musulmani”, “non si tratta di un bando ai musulmani”), aeroporti occupati, gente arrestata all’arrivo sul suolo americano, manifestazioni di protesta, tribunali convocati d’urgenza, tweet infuriati di Trump contro la magistratura “che mette in pericolo la sicurezza nazionale”, annunci di ricorsi fino alla Corte Suprema. Ma che fine hanno fatto gli ordini esecutivi sull’immigrazione?