Ormai il numero delle imprese attaccate alla macchina dell'ossigeno statale è tale che nasconderle sotto un tappeto è impossibile. E prima di procedere, il governo dovrà fare bene i suoi conti pensando non solo alle urne, ma al futuro di un Paese che - in teoria - conta sul turismo per risollevarsi
Dopo l’Ilva, Mps e le Popolari Venete al tandem Padoan-Gentiloni mancava soltanto l’Alitalia per mettere in crisi il già difficile tentativo di convincere Bruxelles che Roma non si sta reinventando imprenditore e banchiere. Più nello stile del proprietario di una holding che controlla bad company, che non in quello dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), pronta a concedere aiuti di Stato in extremis per poi faticare a scollarsi di dosso gli aiutati. Ormai il numero delle imprese attaccate alla macchina dell’ossigeno statale è tale che nasconderle sotto un tappeto è impossibile. Lo sa bene anche il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, che pure ha un bel sottolineare come l’esecutivo abbia chiesto (e ottenuto) all’Ue il via libera per un prestito ponte da almeno 400 milioni per traghettare l’ex compagnia di bandiera entro sei mesi verso i privati “sulla falsariga dell’Ilva”.
Peccato che il traghettamento dell’acciaieria di Taranto sia ancora in alto mare e il prestito ponte negli anni si sia trasformato in un rubinetto pubblico da aprire all’occorrenza. Tanto che invece di traghettamento sarebbe più opportuno usare il termine galleggiamento. A due anni dal commissariamento, ci sono sì due offerte per l’Ilva, ma è facile intravederci lo zampino pubblico con la Cassa Depositi e Prestiti che fa da contraltare a Banca Intesa nel ruolo di garante. Che dire poi del Monte dei Paschi di Siena – primo azionista il ministero dell’Economia – che soltanto sei mesi fa per Matteo Renzi era “ancora un affare per investitori italiani e stranieri” e oggi sta trattando con Bruxelles e Francoforte l’ennesimo aiuto di Stato senza neanche aver finito di ripagare i precedenti? Clamoroso anche l’affaire Veneto Banca e Popolare di Vicenza per le quali, com’era prevedibile, il sostegno del fondo Atlante di mano e mente pubblica, ma dal braccio privato, è stato del tutto inutile: non solo i soldi versati anche da Poste e Cdp non torneranno, ma ne servono pure degli altri. Questa volta interamente pubblici. Senza contare che per tenere in piedi Atlante, le cui quote sono state già svalutate drasticamente da Intesa e Unicredit, il governo ha anche investito i 500 milioni di liquidità trovati nella cassa della società pubblica Sga, ex bad bank del banco di Napoli. E sullo sfondo restano casi limite come quello di Saipem al cui capezzale è dovuta accorrere in fretta e furia la Cassa Depositi e Prestiti, sempre più braccio operativo dello Stato nei salvataggi d’impresa. Con le dovute perplessità della Corte dei Conti.
Se Alitalia resta quindi il tema del giorno, è evidente ormai che il leit motif alla base delle scelte del governo è lo stesso ormai da tempo: evitare il collasso di banche e grandi aziende con tutte le conseguenze sociali e politiche del caso. La sfida non è in fondo poi così dissimile da quella che a suo tempo raccolse l’Iri prima di trasformarsi un carrozzone pubblico. Ma il contesto storico è decisamente diverso: le risorse sono scarse, l’economia rallenta e la globalizzazione assottiglia i margini di redditività delle imprese. In questo scenario, lo Stato ha l’ingrato compito di scegliere con attenzione dove investire i pochi denari che ha a disposizione per costruire il futuro industriale del Paese. Senza tuttavia ignorare le istanze sociali legate a doppio filo con le crisi delle grandi imprese italiane. Inutile nascondersi dietro ad un dito: un eventuale fallimento di Alitalia avrebbe un impatto devastante su Roma e dintorni con 12mila persone che finirebbero per strada. Allo stesso modo la chiusura dell’Ilva lascerebbe a casa 25mila persone mettendo in ginocchio l’economia di un’intera regione. Più che legittimo quindi che il governo si preoccupi di gestire le crisi. Resta tuttavia l’interrogativo di come farlo.
Escludendo una pioggia di finanziamenti pubblici che pesano sui contribuenti tanto quanto gli ammortizzatori sociali senza risolvere i problemi, restano sul tavolo la possibilità di un rilancio con un’oculata gestione o la vendita. La prima opzione sembra quasi impossibile visti i trascorsi. Eppure c’è chi ricorda che l’ex ad di Alitalia Domenico Cempella riuscì non solo a chiudere due bilanci in utile, ma anche a progettare un futuro per la compagnia assieme a Klm. Le nozze tuttavia sfumarono per via di cinque giravolte del governo italiano su Malpensa e per effetto delle forti pressioni politiche affinché il secondo esecutivo Amato, con Pier Luigi Bersani ministro dei Trasporti, sviluppasse lo scalo di Fiumicino. Così la seconda strada, quella della cessione, sembra oggi l’unica opzione per Alitalia. In prima linea, nonostante le smentite di rito, c’è Lufthansa, se non addirittura una Ryanair affamata di slot a basso costo come lo fu Etihad. Qualora dovesse andare in porto, la vendita di Alitalia non salverà il Paese da un’ondata di licenziamenti che peseranno anche sulle casse pubbliche. Così come se in passato Alitalia si fosse unita in nozze ad AirFrance, non saremmo stati immuni da dolorose ristrutturazioni. In più l’eventuale vendita cancellerà anche il sogno di una compagnia di bandiera che funziona alimentando i flussi di traffico verso l’Italia. Per questo prima di procedere, il governo dovrà fare bene i suoi conti pensando non solo alle urne, ma al futuro di un Paese che – in teoria – conta sul turismo per risollevarsi.