Figura leggendaria, colma d’incanto e irriducibile a etichette convenzionali, quella di Erik Satie, compositore dall’ispirazione soave e celestiale, padre nobile della musica classica contemporanea, esaltato ricercatore esoterico, compositore geniale e saggista affilato, rapito da visioni mistiche in una costante tensione verso l’Assoluto eppure in grado di rispondere con umorismo feroce e greve all’ottusità dei suoi critici, icona di un’eccentricità artistica priva di orpelli e pose, autentico specchio della propria condizione: essere il privilegiato messaggero di un Altrove.
La sua importanza nella storia della musica moderna è fondamentale. Sintetizzando brutalmente con una battuta, potremmo dire che Satie è l’anello mancante tra Fryderyck Chopin e John Cage. I suoi Quaderni di un mammifero (Adelphi) sono uno straordinario concentrato di riflessioni illuminanti, intuizioni rivelatrici, spunti imprevisti, aneddoti memorabili, che ci consentono di entrare dietro le quinte della sua peculiare ispirazione.
Leo Ferré, invece, è una figura completamente diversa: un cantautore e poeta fieramente anarchico, passionale, solitario e individualista, eppure animato da una potente vocazione alla fraternità umana che amava mettere in musica i versi amati di Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Apollinaire, autore di canzoni per Edith Piaf, amico e ispiratore dei nostri più grandi cantautori, soprattutto della scena genovese, come Gino Paoli e Fabrizio De André.
Cosa c’entra, dunque, il cantautore che urlava i versi più oltraggiosi con il compositore che si dice nelle notti di pioggia lasciasse i propri spartiti all’aperto sotto le stelle affinché potessero assorbire l’eco delle armonie celesti?
Chiedetelo a Sebastiano Vilella, tra gli esponenti più colti, arguti e talentuosi della fervida scena fumettistica italiana contemporanea che ha omaggiato i due artisti nel suo recente L’Armadio di Satie (Coconino Press).
Il raffinato fumettista barese, già apprezzato per l’originale Interno metafisico con biscotti (ispirato ai cruciali anni giovanili di Giorgio de Chirico), gioca con spudorata confidenza (quella che si estorce a ciò che si ama) con le due figure, rendendo il più improbabile degli accostamenti un plausibile spunto di riflessione.
Teatro della scena è appunto L’Armadio di Satie, il fantomatico appartamento di Rue Cortot, 6 a Montmarte, composto di due piccole stanze, delle quali solo una veniva abitata dal musicista, mentre l’altra venne tenuta misteriosamente chiusa a chiave fino alla fine dei giorni del geniale inquilino. Gli amici scopriranno, in seguito, che essa conteneva una vasta collezione di ombrelli, mai utilizzati.
Vilella, con invenzione solo apparentemente ardita ma in realtà fedele alla visione gnostica del protagonista, ci mostra due volti di un moderno Giano artistico: il compositore mistico e sognante, visitato da dispettosi spiriti caldei, e il “fratello” cinico e scettico, ovvero il musicista stesso raffigurato nella sua disincantata maturità.
Tutto troppo irreale? In realtà, è filologicamente inappuntabile, considerato che l’opera è dedicata a colui che avrebbe potuto tranquillamente intonare il verso di Ferré posto all’inizio del racconto: “Io vivo altrove, nella quarta dimensione”, quella che nei testi yogici è chiamata lo stato di Turya, la pura consapevolezza che trascende i tre stati di coscienza comuni (la veglia, il sonno e il sonno senza sogni).
Un omaggio al di là del tempo e dello spazio che conferma ancora una volta come il fumetto italiano sappia esprimere opere dall’alta dignità culturale.