“Io se non vinco, non rimango“. L’aveva detto lui. Magari era solo una provocazione, per scuotere il gruppo. Forse pure una exit strategy, per svincolarsi dalla Roma in un momento in cui più di una piazza prestigiosa (di sicuro l’Inter, all’epoca si parlava pure della Juventus) potrebbe liberarsi. Ma dopo una stagione del genere saranno ancora in tanti a volerlo? Luciano Spalletti non ha vinto nulla, ha perso tutte le partite che contavano: i preliminari di Champions, la sfida scudetto con la Juve, il ritorno degli ottavi di un’Europa League ampiamente alla portata, il derby di coppa con la Lazio e pure quello dell’ultima rivincita. Mettendoci sempre la faccia, con i suoi protagonismi. Chissà che cosa farà fra qualche settimana, quando la Roma chiuderà la stagione senza trofei.
Arrivati a maggio, i giallorossi si ritrovano un’altra volta a fare i conti con l’ennesima annata fallimentare no, ma perdente senza dubbio. Alla fine nella volubile Capitale a far pendere la bilancia da una parte o dall’altra potrebbe essere proprio il derby. Quello di ieri, perso nettamente nonostante i regali arbitrali di Orsato, lascerà il segno. Ma non bisogna farsi trascinare dagli isterismi romani e romanisti, evidenti nella sguaiata esultanza di De Rossi o nel fallaccio a tempo scaduto di Rudiger. La stagione dei giallorossi sarebbe stata negativa comunque. Così come lo sarà lo stesso, in caso di successo fra due settimane all’Olimpico contro la Juventus: una partita che nella Capitale aspettano da mesi, ma che potrà avere al massimo il sapore della vittoria di Pirro, probabilmente a scudetto già aggiudicato, con i bianconeri magari proiettati verso la finale di Champions di Cardiff, o nella peggiore delle ipotesi verso quella di Coppa Italia. Dove ci sarà la Lazio, e non la Roma.
E pensare che le premesse erano ben altre. Il suo ritorno a Roma al posto di Rudi Garcia aveva segnato una sorta di rivoluzione: allenamenti duri, pugno di ferro nello spogliatoio, ritmo alto in campo. E i risultati si erano visti subito, con la cavalcata dello scorso anno fino al terzo posto, e il rimpianto di non essere arrivato prima. Ha resuscitato Dzeko, valorizzato al meglio Nainggolan, scoperto Emerson. Per un paio di mesi a cavallo tra questa e la passata stagione ha prodotto un calcio di altissimo livello. Però l’effetto Spalletti è durato troppo poco. Soprattutto, il tecnico toscano non è riuscito a compiere quell’ultimo passo decisivo, che poi fu il grande fallimento anche dei predecessori: cambiare la testa di Roma e della Roma, portare la mentalità vincente, la sua ossessione. Invece chiuderà ancora con un secondo posto, se andrà bene, a distanza siderale dalla Juventus, che non è mai riuscito nemmeno ad impensierire. E a poco più di un anno dal suo ritorno, questo secondo ciclo potrebbe essere già finito.
Lui ci ha messo tanto del suo. Il tormentone esasperato con Totti, qualche incomprensione con la società sul mercato, la crociata contro i giornalisti. Un protagonismo a volte esagerato, con cui ha ha finito per dilapidare il credito di fiducia dei tifosi, che all’inizio sembrava enorme ma a Roma non è mai infinito. Adesso restano quattro giornate per salvare il salvabile. Ovvero la qualificazione diretta alla Champions League, preziosa perché permette di programmare la prossima stagione per tempo, con la certezza dei milioni garantiti dalla Uefa e senza stravolgere la preparazione. A prescindere da chi ci sarà. Perché “se arriviamo secondi non si è fallito, però zero titoli…”. Lo ha detto sempre lui.