È finita come doveva finire: l'ex premier torna al Nazareno forte di una vittoria larghissima. Rispetto al 2013, però, il nuovo partito del segretario è molto diverso da quello vecchio: gli acerrimi nemici non ci sono più, gli altri implorano pietà o - come nel caso di Emiliano - sono rimasti ostaggio dei renziani, dopo aver sbagliato tutte le mosse. Nel frattempo è già comparso sullo sfondo il tema fondamentale: quando andare alle elezioni
Il primo a confermare – finalmente – il vero senso delle quinte primarie della storia del Partito democratico è Dario Franceschini. “Il popolo restituisce a Matteo Renzi una leadership forte”, dichiara il ministro poco dopo le 21 e 30. Il popolo non è lo stesso che ha bocciato la riforma costituzionale e in quel momento non ci sono ancora né dati ufficiali sull’affluenza e nemmeno sulle proporzioni della vittoria dell’ex premier. Non ci saranno fino a oltre la mezzanotte, per la verità. È un fatto, però, che con i numeri diffusi già poco dopo la chiusura dei seggi le primarie più anonime di sempre sono state per Renzi soltanto quello che lo stesso ex presidente del consiglio voleva che fossero: semplicemente una nuova legittimazione popolare, tappa obbligata per archiviare la batosta del referendum.
A votare per incoronare l’unico segretario capace di vincere due primarie consecutive – in dieci anni di Pd – sono andati in quasi due milioni: un’affluenza molto peggiore rispetto a quella della precedente edizione – quando gli elettori furono 2,8 milioni – ma che comparata con le dichiarazioni pubbliche dello stesso ex segretario suona quasi come un trionfo. Lo stesso Renzi, infatti, aveva furbamente fissato a un milione di elettori l’asticella minima per non considerare le primarie un flop. Un tetto fin troppo basso, e infatti quando sembrava chiaro che ai seggi si fosse recato quasi il doppio delle persone, ecco che i renziani di ferro sono subito corsi a rivendicare il successo . “E poi c’era chi aveva già fatto il funerale alle primarie. Ma ancora una volta il popolo Pd li ha sonoramente smentiti. Grazie!”, twitta lesto Lorenzo Guerini. E pazienza se dal 2013 ad oggi si è perso per strada quasi un milione di voti, come fa subito notare lo strasconfitto Andrea Orlando: magra consolazione per il guardasigilli – fino a quando lo sarà, vedremo – che non ha preso neanche un terzo dei voti rispetto a Renzi, perdendo quasi dieci punti percentuali rispetto a quanto aveva ottenuto nei circoli.
di Manolo Lanaro
Per il resto è finita come doveva finire: il copione delle primarie 2017 era più scontato di certi thriller da seconda serata. L’ex premier torna al Nazareno forte di una vittoria larghissima. Ha superato il 70% – forse addirittura il 73, dicono i renziani – secondo solo a Walter Veltroni e al suo 75% del 2007: un’altra epoca. Veltroni doveva governare con un partito di centrosinistra finalmente a vocazione maggioritaria, Renzi voleva soltanto dimenticare la personale batosta del 4 dicembre: decisamente altre motivazioni. Le sconfitte del passato, però, sono il tema principale degli sconfitti, quando questi ultimi credono di essere tornati a vincere. E infatti lo stesso Renzi – con un post su facebook – e Franceschini citano il referendum come un episodio del trapassato remoto. “Rifarei domattina quella battaglia. Una battaglia persa non è una battaglia sbagliata”, scrive l’ex sindaco di Firenze quando i seggi si sono appena chiusi. “In Italia – sancisce Franceschini poco dopo – si dimentica tutto in fretta ma dopo il referendum Renzi si è dimesso da tutto. Ora il popolo gli restituisce una forte leadership che ci mette in condizione di ripartire”. Già la leadership. Perché adesso bisognerà capire come amministrerà il suo 70% il vecchio-nuovo segretario del Pd.
“Come aveva previsto stasera con le renziarie è nato il Pd. Dal Partito della Nazione al Partito della fazione”, accusa con una punta di umorismo lo scissionista Miguel Gotor, mentre subito dopo la sua rielezione Renzi prova a dissimulare. “Il Pd non è un partito personale: come si fa a dirlo quando due milioni di persone vanno a votare? Come si fa a dire che è il partito di uno solo? ”, dice il rieletto numero uno del Nazareno, che in apertura del suo discorso utilizza toni distesi persino per gli avversari. Ringrazia gli sfidanti Orlando e Michele Emiliano, parla di “una comunità fortissima”, e a proposito del concetto di “partito con un leader forte” concede un semplice “vedremo“. Insomma come da copione: ora che ci sono finalmente tutti i presupposti per essere un solo uomo al comando, il segretario prova ad evitare almeno di apparire come tale.
Rispetto al 2013, infatti, il nuovo partito di Renzi è molto diverso da quello vecchio. Di sicuro è un partito più renziano. Gli acerrimi nemici, quelli delle dichiarazioni al vetriolo sui giornali e alle direzioni – e cioè i bersaniani – non ci sono più. L’ultimo antagonista, e cioè Emiliano, ha praticamente sbagliato tutte le mosse: ha aperto la guerra al segretario, ha tradito gli scissionisti per rimanere dentro al Pd, si è candidato alle primarie in semi solitudine, quindi si è rotto maldestramente un ginocchio per colpa di una tarantella da campagna elettorale: tutto per prendere una percentuale da Angelino Alfano, come lo sfottono i maligni. Adesso è praticamente ostaggio in un partito di renziani e senza neanche gli altri due tenori – Roberto Speranza ed Enrico Rossi – a spalleggiarlo all’opposizione: un disastro. Gli altri, quelli che non sono andati via ma non hanno neanche sostenuto Renzi, temono che – al netto dei toni distesi – il segretario voglia entrare immediatamente con il lanciafiamme dentro al partito e quindi implorano subito pietà. Come l’orlandiano Cesare Damiano che a urne appena chiuse dice: ” Spero non si ripeta l’idea di una proprietà del partito. Spero che Renzi non prenda l’abbrivio per mettere in discussione il governo: abbiamo delle importantissime scadenze”.
Sì perché nel frattempo è già comparso sullo sfondo il tema fondamentale: il futuro di Paolo Gentiloni. Nessuno lo dice apertamente, ma tra i social network e le dirette televisive il tema viene sollevato tra battute e sorrisini: quanto durerà il governo? Si arriverà davvero alla scadenza naturale della legislatura? O molto probabilmente si avrà una nuova legge elettorale entro l’estate per andare poi al voto in autunno? “Non sappiamo il giorno in cui voteremo”, si lascia sfuggire Renzi, quando invece il giorno delle elezioni è già scritto – sulla carta – dal febbraio del 2013. Un piccolo lapsus dell’ex premier – forse dettato dall’abbrivio di Damiano – appena tornato al Nazareno dopo aver rivinto le primarie con una specie di plebiscito in bianco e nero. A Palazzo Chigi, però, c’è un altro inquilino: un particolare che Renzi ha già dimostrato di non sopportare granché. Per informazioni – fanno notare i buontemponi – basta fare un colpo di telefono a Parigi, alla Scuola di affari internazionali di Sciences Po.
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