Per chi, come lui, coltivava il senso dell’umorismo e il gusto della provocazione in modo quasi maniacale, era normale scherzare anche sugli eventi più traumatici della vita. Come l’espulsione dalla Libia, avvenuta nel 1951. “Se fossi sfuggito a questa prima ondata, da bravo studente in Legge sarei diventato un avvocato tripolino e quando Gheddafi m’avrebbe poi cacciato, nel 1979, insieme a tutti gli altri, mi sarei ritrovato in Italia, a quasi 50 anni, a fare l’avvocaticchio per una compagnia d’assicurazione ad Agrigento, a Catania. Un incubo. L’ho veramente scampata bella”.
Valentino Parlato, morto nella notte tra l’1 e il 2 di maggio a 86 anni, in Libia – per la precisione a Tripoli – c’era nato il 7 febbraio 1931. Suo padre, funzionario del fisco originario di Favara, fu mandato dal regime fascista a lavorare in quella che all’epoca era la colonia più prestigiosa. E dalla Libia fu cacciato all’età di vent’anni, a causa della sua militanza comunista, quando ormai il Paese africano non era più la nostra “quarta sponda”, ma ricadeva sotto il protettorato britannico. “Sul finire di una notte di novembre – racconterà Parlato molti anni dopo – i poliziotti inglesi entrarono in casa nostra. Erano armati, la perquisirono e mi arrestarono. Io non appena li vidi, prima ancora che fossero dentro, buttai dalla finestra tutte le pubblicazioni visibilmente comuniste che tenevo in casa. Avevo paura della prigione, e invece quando capii che l’auto militare mi portava in direzione del porto trassi un sospiro di sollievo. Espulsione, e non galera”. In Libia ci sarebbe poi tornato, mezzo secolo dopo, da invitato speciale e con tutti gli onori. Gheddafi lo convocherà per un colloquio molto amichevole: “Gli avevo fatto avere i documenti della nostra Associazione per il progresso della Libia, quelli elaborati all’epoca della mia giovinezza tripolina”.
Tra la cacciata e il ritorno, però, in quei 50 anni Valentino Parlato fu molte cose. Intellettuale e militante di partito, esperto di politica economica, giornalista di mestiere (“Girava sempre con il giornale sotto il braccio”, dice chi lo conosceva bene) e provocatore per vocazione. Comunista “eretico”, che ripensando all’epoca in cui la sua generazione “si gettava nella lotta”, ammetterà: “Noi dell’Urss non sapevamo nulla”.
Lasciata la Libia, Parlato arriva a Roma, dove s’iscrive all’Università. E lì che conosce Luciana Castellina, ed è in quel momento – sempre il ’51 – che entra nel Pci. E conosce i leader delle correnti opposte: con tutti stringe rapporti che resteranno solidi, e da tutti si fa stimare. Correttore di bozze all’Unità di Pietro Ingrao e Alfredo Reichlin (quelli che stavano, si direbbe oggi, alla sinistra del partito), passa ben presto a lavorare nella sezione economica del Comitato centrale, al famigerato quinto piano di Botteghe Oscure, diretta da Giorgio Amendola. Che invece è alla testa della destra del Pci, quella dei cosiddetti “miglioristi”, tra le cui fila figurano anche Emanuele Macaluso e Giorgio Napolitano. Col primo i rapporti sono – e si manterranno – molto amichevoli; col futuro presidente della Repubblica un po’ meno. Lo ammetterà, ironico come sempre, lo stesso Parlato: “Una volta Amendola mi chiese: Ma perché ce l’hai con Napolitano? È così gentile, è tanto educato. E io: Apposta”.
Nel frattempo, un breve periodo di collaborazioni con la Banca Mondiale vale a metterlo un po’ in cattiva luce agli occhi di molti compagni. Anche se la rottura definitiva avverrà, com’è noto, nell’ottobre del ’69, quando il gruppo del Manifesto fu radiato dal Comitato centrale e Parlato – insieme a Pintor, Castellina, Natoli e Rossanda – è tra i più determinati nel decidere di fondare il giornale a cui per tutta la vita resterà legato. “Da direttore, in varie occasioni, e da padre nobile e guida spirituale, sempre”, ricorda chi in quella redazione ha lavorato per decenni. “Sembra retorica, ma è così: si è sempre fatto carico di tutti i problemi, soprattutto economici, a cui Il manifesto negli anni è andato incontro. Il mantra della redazione? Ai tempi d’oro, per portare a casa la giornata bisognava chiedersi sempre tre cose. Nell’ordine: Cosa pensa Rossana? Scrive Luigi? Dov’è Valentino?’. Ma se su Rossanda e Pintor potevano talvolta esserci dei dubbi, Parlato sapevamo per certo che era sempre disponibile. Anche solo per telefonare a un collaboratore irreperibile, anche per contattare un ministro o un parlamentare, che ovviamente a lui rispondevano subito”.
Dal Manifesto Parlato si allontana nel dicembre del 2012: l’ultimo tra i fondatori a decidersi al grande addio. Lo fa con una lettera indirizzata all’allora direttrice, Norma Rangeri. “Quel che state facendo per il rilancio del giornale non mi convince affatto”, scrive. “Dopo più di 40 anni sono fuori da questo Manifesto che è stata tanta parte della mia vita”. Per lui, però, resterà sempre quello “il giornale”: lo chiamava così, senz’altri attributi. Ma parlava con tutti, anche con i quotidiani del centrodestra, anche quando la cosa risultava sgradita ai suoi amici. È successo anche di recente, nel dicembre scorso, quando Parlato si è concesso a il Giornale – nel senso del quotidiano di Alessandro Sallusti – per un’intervista, replicando poi ai malumori di qualche conoscente con una battuta che la dice lunga sulla sua autoironia: “Mi hanno detto che il colloquio sarebbe finito sul giornale. E io inevitabilmente ho pensato al Manifesto”.
Due volte sposato, con Clara Valenzano prima e con Delfina Bonada poi, tre volte padre. Fedele ai suoi ideali giovanili, ma sempre convinto della necessità di non perdere contatto con la realtà del proprio tempo, negli anni della Seconda Repubblica guarda con simpatia a Romano Prodi. Non a Massimo D’Alema, che invece critica più volte. È al Manifesto di Parlato che il segretario del Pds nel 1995 dichiara, con una frase poi destinata a rimanere celebre: “La Lega è una costola della sinistra”. Più di tutto, al leader della Quercia Parlato rimprovera la decisione di bombardare il Kosovo, durante la sua permanenza a Palazzo Chigi. Ne nascono scintille, ma in seguito i rapporti tornano piuttosto cordiali.
Fumatore accanito, protesta contro “la liberticida” legge Sirchia: “Non escludo che, dopo le sigarette, si passi a vietare tutto il resto”. Chi lo ha incontrato, negli ultimi mesi, lo ricorda acciaccato ma apparentemente in buona salute. E sempre lucidissimo nelle sue provocazioni. Non tanto il suo No convinto al referendum sulla riforma costituzionale, quanto piuttosto la sua scelta di votare per Virginia Raggi alle comunali di Roma del 2016. Scelta di cui poi si era pentito, ammettendolo con la solita franchezza. “È stata la priva volta che ho tradito la sinistra”, aveva detto spiegando quella decisione. Poi aggiungerà: “Sarà anche l’ultima”.