Domenica 7 maggio un ballottaggio Macron–Le Pen che toccherà la politica non solo francese. A seguire le cronache degli ultimi giorni l’esito sembrerebbe solo questione di come tira il vento più capriccioso, con le passioni – temperate o impetuose a seconda del caso – che spingono alle urne un elettorato incerto tra un eurofilo e una eurofoba. Si trascura che sono in ballo cittadini che, alla fine e solo il giorno dopo, i media e i commentatori scopriranno razionali e aderenti a contenuti di indiscutibile concretezza che riguardano il loro futuro. Nel caso francese è lo smarrimento dei punti di partenza politici tradizionalmente aggreganti – destra, sinistra; gollisti, socialisti – ad accentuare il lato ideologico e a far passare in primo piano la personalità anziché la realizzabilità dei programmi elettorali dei duellanti. Ma non bisogna prendere un simile abbaglio, anche quando non è granché quel che passa il convento. Il popolo non è populismo e il lavoro e la natura non sono solo economia.
Vediamo innanzitutto cosa è accaduto sotto il profilo più strettamente politico-sociale al primo turno delle elezioni presidenziali francesi, contando in cifra assoluta (anziché in percentuale) la differenza dei voti rispetto alle elezioni del 2012. Si può concludere che la destra “classica” – gollista alla Sarkozy, per intenderci – perde oltre 2 milioni di voti, mentre l’incremento della destra nazionalista è di quasi 3 milioni. Il crollo a sinistra c’è stato davvero e la candidatura Mélenchon ha attutito il colpo ma non abbastanza rispetto alla frana che ha schiacciato il Partito Socialista (– 8 milioni di suffragi). C’è più che probabilmente una quota di voti in transito dalla sinistra all’estrema destra: è questo il frutto più evidente del clima sociale e politico che si è respirato anche in Francia. Il nodo politico è se quei voti rimangono ancorati alla Le Pen anche in un confronto non più quadripartito come nel primo turno.
Sembrerebbe così una questione tutta legata alle difficoltà del mondo del lavoro e di quello contadino e del ceto medio meno acculturato della Francia profonda, lasciati soli dalla sinistra, oltre che l’affermazione di una tendenza sovranista: da questo punto di vista, la candidata della destra potrebbe venirne favorita. Almeno, così raccontano gli articoli dei commentatori del Corriere, di Repubblica o della Stampa. Ma se sfogliamo le pagine della scorsa settimana di Paris Match, di France Soir o di Libération ci accorgiamo che le apparizioni dei candidati nelle fabbriche occupate come la Whirlpool di Amiens, o quelle dimezzate come l’Alcatel di Clairvaux-les-Lacs sono state accolte con copertoni incendiati e che pescatori e contadini hanno boicottato comizi e visite a Marsiglia e in Borgogna della stessa Le Pen. E quando il 21 aprile in 12 città francesi si sono svolte le marce dei ricercatori contro le restrizioni alla ricerca pubblica, sono stati numerosi gli striscioni contro il nucleare civile e militare e a favore della lotta contro i cambiamenti climatici e per la difesa della sanità pubblica. Solo nelle celebrazioni per Giovanna d’Arco che si tengono in questi giorni si ritrova l’unità dei candidati e della popolazione, anche se con differenti accenti nei confronti del continente in cui l’eroina è riconosciuta.
In definitiva, è facile rendersi conto che sullo status quo la protesta favorisce la Le Pen, ma Macron è più affine all’idea di una trasformazione dell’economia sotto il profilo della riqualificazione dell’occupazione manifatturiera e della riconversione ecologica. Finora è rimasta in ombra l’ostilità “trumpiana” all’ecologia della Le Pen rispetto al suo avversario. E alla fine questo lato potrebbe contare, tenendo conto che nel 2012 al primo turno erano andati oltre 800.000 voti alla candidatura ecologista di Eva Joly, non ripresentata nel 2017.
Il “Journal de l’Environnement” del 19 aprile ospita un articolo di Valéry Laramée de Tannenberg che, dopo aver criticato la cultura da “greening industriale” di Macron, elenca positivamente le “frecce verdi” al suo arco: ha adottato il programma di “Verde Francia”; reso pubblica la sua visione per una Francia libera dalla CO2 entro il 2050 sulla base dei 13 punti dell’Ademe (Agenzia ambientale e per l’energia francese) e con il sostegno di Hamon e la contrarietà di Valls. La sua potrebbe tuttavia essere un’adesione superficiale, dato che non si schiera per una società in cui ognuno genera la propria energia che può essere venduta al prossimo quando esiste un surplus. Non adotta apertamente uno schema che garantirà il futuro energetico della Francia, anziché l’estensione della vita operativa delle centrali elettriche nucleari. Dichiara altresì di puntare all’auto elettrica contro l’inquinamento, pensando a sussidi che sarebbero compensati da minori interventi per la salute, nonché a preservare la biodiversità per proteggere le specie, la sicurezza alimentare, i mari e combattere il cambiamento climatico. Chiede infine la dismissione delle centrali a carbone e di obbligare le industrie a ridurre notevolmente il loro consumo di materie prime per produrre prodotti con una vita utile più lunga e facilmente riparabili e riciclati.
Al contrario la Le Pen ha lanciato un movimento ambientale “patriottico” che starà al fianco della nuova amministrazione americana nei negoziati internazionali contro il clima e sosterrà un ulteriore sviluppo dell’energia nucleare, a partire dall’incredibile richiesta di allungare la vita della centrale di Fessenheim, la più vecchia del Paese. Se la questione ambientale avrà un peso il 7 maggio, la proclamata sintonia con Trump porterà sfortuna alla Le Pen.