Si chiama “Asamblea Nacional Constituyente”. E, volendo concedere al chavismo un credito storico che assolutamente non merita, la si potrebbe definire una riedizione in chiave di farsa, o di tragicommedia tropicale, di quel celeberrimo “tutto il potere ai soviet” che – in anni lontani ed in ancor più lontani panorami politici – dette il là alla Rivoluzione d’Ottobre. Regolarmente consumata l’inevitabile tentazione di parallelismi che, pur nella loro negatività, risultano risibilmente gratificanti, questo è quel che si può molto più pragmaticamente e seriamente dire della “svolta rivoluzionaria” enfaticamente annunciata, lo scorso primo di maggio, dal corpulento presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Nicolás Maduro: si tratta di un’ultima burla, dell’ultimo beffardo e sfrontato trucco da baraccone attraverso il quale un regime inetto, corrotto ed autoritario, da tempo inviso alla grande maggioranza della popolazione, cerca di sbarrare la strada a qualsivoglia forma di autentico confronto elettorale. Laddove per “confronto elettorale’ s’intende, ovviamente, il riconoscimento di quel basico diritto democratico che va sotto il nome di “suffragio universale”. E laddove il confronto elettorale è, anche, l’unica possibile via d’uscita dalla crisi economica, politica, istituzionale e morale nella quale il chavismo ha precipitato il Venezuela.

Questi in sintesi i fatti. Dopo settimane di proteste di piazza – quelle pacifiche e meno pacifiche, ma in ogni caso sempre assai poco pacificamente represse, che hanno fatto seguito al “golpe” col quale, lo scorso 30 di marzo, il Tribunale Supremo di Giustizia s’era appropriato di tutte le funzioni del Parlamento – Nicolás Maduro ha, nel giorno della Festa del Lavoro, annunciato la convocazione d’una Assemblea Costituente destinata a definire una nuova Carta Magna. Decisione questa che, dato lo stato di convulsione politico-sociale nel quale versa il paese, potrebbe d’acchito apparire meritoria ed opportuna, non fosse per un piuttosto significativo dettaglio. L’assemblea che Maduro convoca non è in alcun modo quella che la Costituzione in vigore – sì, quella “Costituzione più bella del mondo” che il chavismo in ogni istante invoca come un sacro testo e che in ogni istante stupra con insolente volgarità – prevede per superare se stessa definendo i lineamenti una nuova repubblica (la sesta nel caso del Venezuela). È invece – per usare le parole del medesimo Maduro – una “costituente cittadina, non la costituente dei partiti e delle elite, è una costituente operaia, comunale, contadina, una costituente femminista, dei giovani, degli studenti, una costituente indigena… ma soprattutto una costituente operaia, decisamente operaia, profondamente operaia…”.

Traduzione: nessuno si illuda che, per eleggere questa nuova Asamblea Constityente, i cittadini siano chiamati alle urne, come vogliono le regole del suffragio universale, per un voto libero, segreto e pluralistico. No, il mostriciattolo istituzionale profilato da Maduro – in termini per la verità ancor vaghi, ma di per nulla vaga mostruosità – prevede la creazione d’un corpo deliberante, con poteri assoluti, composto da 500 persone, per metà nominate a “livello municipale” (presumibilmente attraverso le “comunas”, organi non elettivi sotto il totale controllo governativo che, nella visione di Hugo Chávez, dovevano rappresentare la base del “socialismo del XXI secolo”), e per l’altra metà da organizzazioni di settore: operai, donne, studenti, contadini…

Un’assemblea dei soviet? Se vi va di far ridere i proverbiali polli – e di brutalizzare la Storia – chiamatela pure così. Un “golpe”, come molti l’hanno, sul versante antichavista, prontamente definita? Neanche. “Golpe” è ormai da tempo, in questa Venezuela che va sprofondando nel baratro, la più logora, abusata ed insignificante delle parole. I golpe si fanno dove c’è una democrazia da “golpeare”. Ed in questa parte del mondo vige, ormai da ben oltre un decennio, un regime non democratico che di golpe vive (la separazione dei poteri non è, da almeno un paio di lustri, che un lontano ricordo) e che di golpe ne denuncia, per giustificare se stesso e sfidando impavido il ridicolo, uno ogni settimana (anche le proteste di questi giorni sono, per il governo bolivariano un “tentativo di golpe” consumato nel nome dell’imperialismo).

La verità è che dare un nome a questa ennesima porcata istituzionale è pressoché impossibile. Possibile, anzi, inevitabile è invece definirla l’ultimo anello d’una serie di decisioni che – prese in alternativa dal CNE o dal TSJ, i due indecenti, burattineschi “arbitri” della politica venezuelana – hanno sistematicamente, a partire dalla sonora sconfitta elettorale del chavismo nelle parlamentari del 2015, sbarrato la strada a qualsivoglia decente forma di vita istituzionale. Prima depredando di ogni potere il Parlamento eletto dal popolo e poi negando, con tattiche degne del più classico gioco delle tre tavolette, il diritto al “referendum revocatorio”.

Il “socialismo del XXI secolo” concepito dal “comandante eterno” Hugo Chávez era, nella sua versione originale, una tipica creatura populista a quattro teste. Ovvero: fondata, in primis, sul culto para-religioso della personalità del suo fondatore e, quindi, nell’ordine, su una discrezionale (ed al di là della grandeur ideologica anche molto grettamente assistenziale) redistribuzione delle risorse petrolifere, su un consenso elettorale maggioritario (anche se frutto di competizioni non paritarie) e, infine, sull’appoggio delle forze armate. Tre di questi elementi – il leader carismatico, i proventi petroliferi ed il consenso elettorale – sono venuti meno. Quello che resta in piedi – ed in piedi con la forza – è il sostegno militare, base di un potere cementato dalla corruzione. Difficile, in questo contesto, è immaginare un lieto fine.

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