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Ballottaggi Francia, Macron vincerà ma c’è poco da festeggiare

Se Emmanuel Macron dovesse vincere al secondo turno, come i sondaggi continuano a ripeterci, dalla mattina seguente ricomincerebbe, in modo ovviamente amplificato rispetto alle ultime due settimane, la ricerca del Macron d’oltralpe. Chi è il Macron italiano? Qual è la figura che più gli si avvicina? Quale sarà l’eroe che ci salverà dal populismo? E immagino che discorsi identici siano già stati fatti, o verranno preso fatti, anche in altri Paesi. Macron sarà dipinto come l’archetipo del politico moderno, che si libera delle zavorre ideologiche della destra e della sinistra, propone un programma innovativo, diciamo anche “smart”, mette tutti d’accordo e così soffoca sul nascere le pulsioni radicali che in altri contesti nessuno è riuscito a tenere a bada.

E tutto ciò accadrà, in caso di vittoria, nonostante Macron sia un personaggio che arriva in ritardo di almeno dieci anni, con un programma economico respinto non soltanto dall’evidenza dalla storia recente ma anche dagli stessi elettori francesi, e che potrebbe diventare Presidente soltanto perché le persone che la pensano diversamente da lui su economia e lavoro sono irrimediabilmente divise su altri temi.

La ricetta di Macron consiste, in sostanza, nel connubio trito e ritrito di tagli considerevoli alla spesa pubblica e alleggerimento dei vincoli che ricadono sui datori di lavoro. Con meno regole, meno coinvolgimento dello Stato e un’apertura incondizionata al mercato globale, gli imprenditori saranno finalmente liberi di creare lavoro, si tornerà a crescere e saranno tutti più contenti. Tutto ciò è in continuità con la seconda versione, liberista, di Hollande. Un Presidente che è passato dalle roboanti dichiarazioni della campagna elettorale, e dal proclamato intento di ridare unità e serenità alla Francia, all’approvazione della sua ormai famosa legge sul lavoro (licenziamenti più facili e meno ricorsi) che è riuscita nello straordinario intento di unire nelle proteste e nelle manifestazioni studenti e lavoratori, come non avveniva più da tanto tempo. Per poi terminare il mandato con una popolarità così bassa da escludere perfino la sua partecipazione alle elezioni seguenti.

Questa linea politica, ora abbracciata da Macron, è stata successivamente anche sconfitta alle primarie del partito socialista, in cui l’ex Primo Ministro Manuel Valls, tra i principali artefici delle politiche messe in campo nell’ultimo quinquennio, ha dovuto cedere il passo al polemico Benoît Hamon, uno che, per intenderci, non ha mai fatto mistero di volere abolire il Jobs Act di Hollande, ha accarezzato l’idea di un reddito universale di base, ha proposto di tassare le imprese che sostituiscono la forza lavoro umana con i robot e vuole conferire poteri di veto ai lavoratori sulle decisioni delle grandi aziende. Hamon ha poi ottenuto un risultato pessimo al primo turno, è vero, ma questo perché una buona fetta del suo potenziale elettorato ha voluto dare fiducia a un candidato ancora più radicale di quello socialista, Jean-Luc Mélenchon, che con il suo enorme piano di investimenti pubblici e forte tassazione dei redditi più alti non potrebbe essere più lontano dalla linea di quello che ora sembra essere il vincitore più probabile delle presidenziali.

Se Macron vincerà ciò accadrà soltanto perché gli elettori che sono contrari al suo liberismo centrista sono divisi in modo impossibile da ricomporre su temi come sicurezza, immigrazione e terrorismo. E questo, nel sistema politico francese che obbliga gli elettori a fare una seconda scelta, è per lui un enorme vantaggio. L’ex banchiere ha poi avuto la fortuna di essersi ritrovato a giocare la sfida finale con l’unica candidata, Marine Le Pen, con un cognome, una storia e un piano per l’immigrazione che molto difficilmente si presteranno a un compromesso con il non meno arrabbiato elettorato di sinistra, nonostante le sue proposte economiche siano molto più digeribili per i simpatizzanti di Mélenchon che per quelli di Macron. In questo senso, Le Pen, che doveva essere il grande elemento di destabilizzazione potrebbe invece rivelarsi la garanzia più solida dello status quo. Perché costringerà gli elettori più progressisti a fare un voto conservatore.