“Secondo loro dovrei essere una schiava perché decido di portare in pancia per nove mesi il figlio di qualcun altro? Lo decido io, nessuno mi obbliga. Scegliere cosa fare del mio corpo credo spetti solo a me. Avete una strana idea, in Italia, della schiavitù”. Le parole delle donne di questo libro fanno riflettere moltissimo. Prima di tutto sul concetto di giusto-sbagliato, su cosa sia un punto di vista (la vista da un solo punto), sui significati diversi che si possono dare alle esperienze, anche le più universali, su quanti pregiudizi alberghino in noi a nostra insaputa, e ci accorgeremo che la morale contemporanea, se non la aggiorniamo, si ridurrà a un eggregora: tanto potente quanto esoterica e fuori dalla realtà.
Mio tuo suo loro edito da Fandango e appena uscito, è un testo importantissimo prima di tutto perché dà voce a quelle donne su cui il dibattito nazionale e internazionale si è scatenato ma che non sono state fatte parlare (se si esclude qualche caso negativo di maternità surrogata, come quello riportato dal Corriere), non sono state ascoltate. Le donne che hanno scelto di fare le portatrici, ossia di fare la gravidanza per altri e altre. Non c’è argomento più controverso e attuale, in ambito di diritti individuali e riproduttivi, della gestazione per altri (chiamata dagli acerrimi nemici di questa pratica “utero in affitto“), nonostante il primo caso di maternità surrogata risalga addirittura al lontano 1985.
Perché oggi? Prima domanda. Forse perché i soggetti che hanno iniziato a ricorrere a questa tecnica sono coppie omossessuali maschili e non donne con gravi patologie cliniche che impediscono una gravidanza? Tuttavia non credo che il punto sia l’omosessualità e il pur forte pregiudizio contro i genitori maschi con tale orientamento (irrazionale, dato che gli studi scientifici internazionali dicono che i figli nati e cresciuti con questa tecnica in famiglie con due padri non presentano disturbi), ma piuttosto una guerra di potere tra maschi e femmine, tra padri e madri.
Tanto che un anno fa furono proprio alcune femministe a firmare un appello per vietare la pratica della maternità surrogata, in concomitanza con la discussione in parlamento della legge sulle unioni civili, arrivando a ottenere la cancellazione del comma sulla stepchild adoption. Come dire che il terreno della riproduzione deve restare femminile e la donna non può in alcun modo restare esclusa.
Il libro, anche in tal senso, fornisce una cascata di risposte interessantissime, per esempio che le donne non solo non vengono escluse, ma diventano protagoniste all’ennesima potenza, dato che è grazie al loro dono se due padri possono diventare tali. Ma, ripeto, il gorgo vero in cui viene risucchiata la nostra curiosità di Mio tuo suo loro è la voce delle donne che hanno fatto questa scelta: Serena Marchi ha percorso 33.613 chilometri per incontrarle, ha viaggiato in Ucraina, in Canada, in Texas, nel Regno Unito, in California e perfino in Italia. “Non ho voluto fare alcuna intervista via Skype, nessuna telefonata, nessuna domanda via email, nessuna risposta scritta, ma solo guardarle negli occhi, ascoltare i toni delle loro voci, osservare le espressioni facciali, percepire le loro emozioni – spiega l’autrice. Perché io stessa avevo un bel po’ di dubbi e domande, ed ero io la prima a voler capire qualcosa che mi sfuggiva. Tuttora resto delle mie idee, ma quello che ho imparato, e mi servirà per sempre nella vita, è il rispetto di chi vive, sente, agisce diversamente da come farei io, per quanto riguarda le questioni personali”.
E nel mondo della surrogacy le motivazioni delle donne che prestano il loro utero e una parte della loro vita per partorire figli di altri sono delle più varie: per soldi, per interesse, per altruismo, per senso di responsabilità, per amicizia, per amore. Ma sempre consapevoli.
Il libro suscita già molto interesse. Ho ascoltato i pareri al riguardo (mercoledi 3 maggio è stato presentato a Roma, alla Casa delle Letterature) dei senatori Sergio Lo Giudice e Monica Cirinnà, la bioeticista Chiara Lalli, la giurista Stefania Stefanelli, attualmente impegnata nel progetto di ricerca Adults and children in post-modern societies diretto dal Centre de la personne, de la famille et de son patrimoine – CeFAP – UCL Louvain (Be), Nicola Carone, psicologo e autore del fresco di stampa In origine è il dono, studio italiano sulle famiglie omogenitoriali, Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni, Annamaria Speranza, professore associato alla Facoltà di Medicina e Psicologia La Sapienza e la giornalista Angela Azzaro.
Tutti, all’unisono, hanno applaudito questo lavoro sottolineando il grande bisogno che c’è, soprattutto per la società e la cultura italiana, di ascoltare storie e ricevere informazioni su un tema che riguarda il mondo che verrà e che ha già iniziato a crescere. Nuove famiglie, nuove tecniche riproduttive, nuove giurisprudenze, eppure un Paese e un Parlamento che non vogliono recepire, impauriti da ciò che non si conosce, che non si capisce, che non è identico all’ordine costituito da secoli di tradizione sempre uguale. Quella tradizione, quella “natura”, che fino a pochi decenni fa prevedeva il delitto d’onore, il matrimonio riparatore, vietava il voto alle donne, o l’aborto, o il divorzio. Dai, su, ci vuole coraggio per andare avanti.