Ha vissuto per una vita con la sindrome del fratello maggiore: “Inzaghino”, “il fratello di Pippo”. Come lui faceva l’attaccante, segnava tanto ma molto meno di lui, vinceva abbastanza ma niente in confronto a lui. Poi ha fatto pure l’allenatore, ma senza i suoi privilegi: allievi regionali e non nazionali, tutta la trafila delle giovanili prima di arrivare in prima squadra ma solo per una breve apparizione, nessuna grande occasione (forse immeritata), ruota di scorta e non prima scelta, non c’erano ricordi e pedigree a spingerlo avanti nella sua nuova carriera in panchina. Adesso finalmente Simone Inzaghi è cresciuto, è diventato grande. Da ieri la Lazio ha conquistato la matematica qualificazione all’Europa League, salvo ribaltoni nelle ultime tre giornate (con un calendario comunque difficile) chiuderà quarta. Un risultato eccellente, ottenuto con una rosa normale, con due-tre giocatori di livello internazionale (Biglia, De Vrij, Immobile), un paio di talenti inespressi come Felipe Anderson e Keita, tanti gregari e mestieranti pescati a basso costo dal duo Lotito-Tare in giro per il mondo. Questo gruppo eterogeneo, che in circostanza normali avrebbe potuto valere anche un campionato di metà classifica alla pari di un Torino o una Sampdoria qualsiasi, ha fatto meglio della grande rivelazione Atalanta, ma pure delle due milanesi costruite a suon di milioni (soprattutto l’Inter, in realtà) per andare in Champions. In una stagione ulteriormente impreziosita dalla finale di Coppa Italia, dopo la vittoria nel derby contro la Roma.
In questo percorso che diventerebbe addirittura trionfale in caso di successo il 17 maggio all’Olimpico (al netto degli scongiuri bianconeri, la finale molto probabilmente sarà anticipata per l’impegno della Juventus in Champions League), c’è tanto di Simone Inzaghi. Che sulla panchina biancoceleste non avrebbe dovuto neppure sedersi: a giugno 2016 il patron Lotito aveva deciso di spedirlo nella sua succursale di Salerno, a farsi le ossa in Serie B, nonostante il debutto positivo nelle ultime giornata dello scorso campionato che gli avevano fatto sperare nella conferma. Invece no: la Lazio avrebbe dovuto allenarla un big, Marcelo Bielsa. Lui ha sempre detto sì: quando si è trattato di scendere in cadetteria, o di tornare per salvare la baracca visto che il “Loco” aveva ribadito la sua proverbiale imprevedibilità mollando Lotito dopo aver praticamente firmato il contratto. Rischiando di attirarsi l’etichetta di uomo società, “yes man” (che infatti qualcuno gli aveva già affibbiato). Ma solo perché stava inseguendo il suo sogno: allenare in Serie A, nella sua squadra del cuore. Come faceva anche in campo: lavorando sodo, lontano dai riflettori e dalle fortune riservati ad altri.
Arrivando in punta di piedi ha conquistato tutti. Ha creato un gruppo vero, ricompattando uno spogliatoio che sembrava spaccato in mille pezzi solo un anno fa al momento dell’addio di Pioli. Ha valorizzato i giovani: non solo Keita, finalmente ai livelli che il suo talento merita (14 reti e 13 assist in campionato), ma anche i ragazzini della primavera, i vari Lombardi, Murgia, Crecco, tornati utili in più momenti della stagione. Ha dimostrato anche di aver studiato, preparando bene ogni partita, dando lezioni di tattica al dirimpettaio Spalletti, che negli ultimi tempi si atteggia a vate della panchina ma ha perso i due derby più importanti, fra cui quello della semifinale di Coppa. E non a caso sulla strada che separa la Juventus dal triplete, ci sarà lui. Non il filosofo Spalletti, o il grande ex Pioli, o il rivoluzionario Sarri. Sarebbe il coronamento di una stagione comunque straordinaria, che lo mette di diritto nel panorama degli allenatori italiani emergenti: lui che era stato “solo” un buon giocatore, vissuto sempre all’ombra dei gol del fratello, magari diventerà un grande allenatore. Quasi a ribadire quel filo che da sempre li lega, questa è stata la stagione del riscatto anche di Pippo Inzaghi, che dopo il disastro col Milan è ripartito dalla Lega Pro e ha portato il Venezia in Serie B. Ma stavolta è stato Pippo a seguire le orme di Simone. In quest’altra vita in panchina Inzaghino non vorrà più essere il fratello di nessuno.