Noi umani che abbiamo visto queste cose sappiamo che oltre ai “bastioni di Orione” delle decenza c’è questo film. Ed a parte la solita, lapalissiana e incontrovertibile affermazione “aveva già detto tutto Kubrick in 2001” (sfidiamo chiunque a dire il contrario), in questa reiterazione dello schema “alieno” c’è anche la definitiva conclusione di una saga che non ha probabilmente più niente da aggiungere
Scultissimo Alien. Doveva tornare Ridley Scott alla regia per farci vivere uno dei momenti, anzi parecchi minuti, di autentico scult cinematografico nell’infinita saga/sequel/remake di un filone fanta-horror che ha elevato il mostriciattolo di H.R.Giger celebrità mondiale fin dal primo capitolo del 1979. Alien: Covenant è il sequel, per intenderci, di Prometheus. Anche se potremmo oggettivamente sostenere che è il remake dell’Alien originario. Sceglierete voi come sistemarlo in quest’eterno ciurlare nel manico di un franchise privo di un qualsiasi slancio drammaturgico da vent’anni (leggasi: Jean Pierre Jeunet e la “sua” clonazione). In pratica torniamo all’idea del viaggio colonizzatore, con veri e propri coloni alla conquista del West. Cappellacci da cowboy, sigari, e sputazzi nella sputacchiera spaziale fusi in un crogiolo di predicatori e guerrafondai marines quando l’equipaggio pronto a tutto riceve il (solito) segnale inatteso dal (solito) pianeta inesplorato e (come al solito) fa una deviazione modello giungla vietnamita mitra in mano, per capire se c’è qualche forma di vita (che è poi la solita forma di vita aliena). Alien: Covenant è di nuovo tutto qui. Ma tutto qui sul serio. Il manipolo che scende per primo viene attaccato, i “feriti” contagiati infettano a catena tutti gli altri, e il rischio si propaga all’astronave madre. Mostruoso e mostrificato déjà vu, questo Alien: Covenant ha proprio nello spunto/deviazione di scrittura, reiterato e approfondito, reso cruciale da una tempistica e un significato potente alla cuore di tenebra modello Apocalypse Now, il suo cuore molle, ridicolo e, appunto scult.
Al centro dello “spiegone” sulle origini del mostro alieno c’è l’elemento scult del doppio Michael Fassbender. Già, lo ricordate emaciato, isolato e furioso Bobby Sands in Hunger? Ecco, oggi Fassbender si duplica, triplica e moltiplica con fare catatonico in questa genealogia della clonazione inespressiva e algida che va ben oltre la saga di Alien e tocca il pessimo Assassin’s creed e tutto il filone X-Men. In Alien: Covenant, Fass è fin dall’inizio sulla nave madre nei panni dell’androide Walter, tuttofare di bordo, felpa e cappuccio hypster, regolatore di ipersonni e iperpannelli che modulano viaggi, dormite e tempo all’interno dell’astronave. Ecco, la novità di questo capitolo diretto da Scott è che quando il manipolo di eroi arriva sul nuovo “casuale” pianeta spunta un altro Fassbender, questa volta biondo e frivolo come un paggio, che difende i coloni dai mostri, e soprattutto si crogiola nella sua grotta modello Hannibal Lecter dove colleziona disegni a china di forme viventi, probabili origini del mondo. Il paggio non è altro che David, l’androide superstite di Prometheus, che Fassbender ripropone come clone performativo identico nella sua fissità e nel suo mistero. Solo che, come già accade in molti blockbuster di Ridley Scott, la scrittura deve pagare dazio alla tragedia più tronfia e solenne, e quindi i momenti d’azione e orrore lasciare uno spazio esagerato a dialoghi e azioni minimali che sprofondano nel comico. I due Fassbender si fronteggiano diverse volte. Parlano, si scrutano, si annusano, e perfino si baciano sulla bocca. Anche se ciò accade immediatamente dopo lo scambio di un flautino in legno che David passa di bocca a Walter, e Walter suona soffiandoci dentro mentre David muove le dita a coprire i buchini giusti dello strumento.
Noi umani che abbiamo visto queste cose sappiamo che oltre ai “bastioni di Orione” delle decenza c’è qualcos’altro: Alien: Covenant. Fosse solo per la debolezza drammaturgica della parole e dei segni del doppio Fassbender, questa parte risolutiva del film si annebbia e traccheggia in un ostentato senso del sacro, set pompeiano di uomini pietrificati (e terribilmente bui), statue monolitiche modello isola di Pasqua, anfratti in pietra con baccelli alieni. Ed a parte la solita, lapalissiana e incontrovertibile affermazione “aveva già detto tutto Kubrick in 2001” (sfidiamo chiunque a dire il contrario), in questa reiterazione dello schema “alieno” c’è anche la definitiva conclusione di una saga che non ha probabilmente più niente da aggiungere.