Più di 130 mila persone in Veneto nel 2016 “sono state esposte ad acqua potabile che negli Stati Uniti non è considerata sicura per la salute umana” per la presenza dei composti chimici Pfas, le sostanze perfluoro-alchiliche che hanno inquinato le falde acquifere di gran parte della regione. Lo denuncia Greenpeace che ha pubblicato sul suo sito i dati ufficiali sulle concentrazioni di Pfas nelle acque potabili del Veneto relativi ad oltre 90 comuni nell’anno 2016, forniti all’associazione ambientalista dalle aziende sanitarie locali. Gli abitanti esposti a livelli di sostanze chimiche oltre i limiti salirebbero a 200 mila, spiega sempre Greenpeace, se venissero adottati invece i livelli ancora più restrittivi stabiliti dalle autorità svedesi. “Chiediamo alla Regione Veneto di dimostrarci con prove scientifiche la maggiore tolleranza ai Pfas da parte dei veneti rispetto ai cittadini americani e svedesi per giustificare l’adozione di livelli di sicurezza così elevati nelle acque potabili”, ha dichiarato Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace Italia

Negli Stati Uniti, dove per l’inquinamento della valle del fiume Ohio la multinazionale Dupont è stata condannata a risarcire e a finanziare lo studio indipendente C8 Health Project sulla pericolosità delle sostanze perfluoro-alchiliche, le autorità sanitarie non considerano sicura una concentrazione di due tipi di Pfas (il Pfoa, acido perfluoroottanoico, e il Pfos, perfluorottansulfonato) superiore a 70 nanogrammi per litro, e in caso si superi viene sospesa l’erogazione di acqua potabile. Mentre in Svezia concentrazioni complessive superiori ai 90 ng/l di Pfas (anche sommando diversi tipi di composti) non sono considerate sicure. In Veneto invece sono consentiti fino a 1030 ng/l di Pfas nell’acqua potabile, di cui 500 ng/l solo per il composto classificato come potenzialmente cancerogeno per l’uomo dallo Iarc di Lione, il Pfoa, 500 ng/l per gli “altri Pfas” (altri 10 composti della famiglia) e 30 ng/l per il solo Pfos.

Livelli stabiliti nel 2014 dall’Istituto Superiore di Sanità con un parere a firma dell’allora direttrice del dipartimento di Ambiente e connessa prevenzione primaria, Loredana Musmeci, che indicava la soglia di 1030 ng/l come “limite di performance” da prendere come obiettivo minimo per il trattamento delle acque contaminate in Veneto. La questione però pare essere stata dibattuta anche all’interno dell’Istituto Superiore di Sanità. Era stata infatti la stessa dirigente dell’Iss, Musmeci, soltanto pochi mesi prima, a propendere per i più restrittivi valori statunitensi: in un precedente parere del 7 giugno 2013, la responsabile dell’Iss invitava infatti a “interpretare con cautela il valore tollerabile proposto dall’Efsa (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare da cui sono ricavati i livelli italiani, ndr) anche in considerazione della maggiore persistenza dei composti perfluoro-alchilici nell’uomo rispetto all’animale da esperimento”. In un primo momento Musmeci riteneva “plausibili anche fattori di incertezza di maggiori ampiezza, come adottati dall’Us Epa (l’agenzia Usa per la protezione dell’ambiente, ndr) che ha proposto per il Pfoa una dose tollerabile di circa 8 volte inferiore”. Nelle scorse settimane Greenpeace ha lanciato una petizione per chiedere alla Regione Veneto di “individuare e fermare tutti gli scarichi di Pfas nelle aree colpite dalla contaminazione e di abbassare i limiti di Pfas consentiti nelle acque potabili”.

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