Ora che Matteo Renzi si è impadronito per la seconda volta, e definitivamente, del Pd, l’impronta cattolica del partito è arrivata al capolinea. La breve vampata di polemiche sul presunto avvicinamento della Chiesa al Movimento 5 Stelle aveva già mostrato che ogni collateralismo Chiesa-partiti era totalmente tramontato. Ogni collateralismo, anche accennato, è finito e non si torna indietro.

Già nell’aprile 2015 papa Francesco sottolineava peraltro che un partito dei cattolici “non è la strada, non serve”. Compito dei cattolici è piuttosto “cercare il bene comune”, lavorando nel quotidiano. Nella dimensione piccola o nella dimensione grande come fecero De Gasperi e il francese Schumann, uno dei fondatori delle Comunità europea. D’altronde l’elettorato cattolico è ormai diventato molecolare. Si sposta a seconda di convinzioni, progetti, anche problemi del momento.

Il Pd, tuttavia, prima dell’avventura renziana, era rimasto l’unico grande partito in cui il patrimonio culturale del cattolicesimo politico italiano era considerato storicamente parte del Dna del partito. In special modo l’esperienza dei Cattolici democratici e dei Cattolici sociali. Altrove non si riscontravano più tracce di cultura cattolica. Non certo nel partito di Berlusconi (nonostante gli ostentati collateralismi con la Cei di Ruini) né nella Lega (nonostante saltuarie strumentalizzazioni dell’ ”identità” cristiana del Paese, invocata in funzione anti-islamica) né tantomeno nel movimento grillino, trasversale e post-ideologico per eccellenza.

Si è detto, in occasione della scissione di Bersani, che il Pd si era spaccato perché la fusione a freddo tra cattolici e post-comunisti non aveva funzionato. Ma non è affatto vero che la parte maggioritaria rimasta nel Pd sia quella ispirata dal cattolicesimo politico. Renzi, in realtà, ha fatto piazza pulita nel suo triennio di governo – finito catastroficamente con il referendum costituzionale – di ogni cultura politica nel Pd: sia quella di tradizione cattolica sia quella di tradizione socialista.

Il Ri-Renzi, tornato alla ribalta dopo la legittimazione congressuale, sottoposto a ecografia non mostra nessun background culturale. Non ha certo preso dagli Scout, con il loro culto del lavoro di squadra e di lealtà. Il disprezzo sempre dimostrato per i sindacati non fa parte della tradizione di attenzione per i corpi intermedi, tipica del cattolicesimo italiano. E nemmeno l’incoscienza populista di togliere e mettere la bandiere europea è imparentata con i valori di De Gasperi e Moro.

La disattenzione ostentata per il sistema costituzionale di pesi e contrappesi, la mancanza di rispetto per la rilevanza specifica dei classici “tre poteri” della democrazia (legislativo, esecutivo, giudiziario) con l’ossessiva insistenza sul decisionismo dell’Esecutivo, legittimato una volte per tutte dal “popolo elettorale” fino alla prossima scadenza, è estranea alla tradizione del cattolicesimo democratico. E così l’idea di imporre a colpi di maggioranza una legge elettorale, l’Italicum, che creava un corpo di parlamentari nominati per due terzi dal Capo. O di cancellare la tassazione proporzionale nel caso dell’abolizione dell’Imu per tutti.

L’idea, così tipica della cultura cattolica politica, di un “bene comune” da perseguire in ascolto e con la paziente collaborazione di forze sociali e politiche anche diverse è totalmente assente dallo stile di governo di Renzi. Prevale l’ossessione del comando. C’è solo il leader e la folla telematica. Il progetto, poi, di una riunione settimanale del Segretario del Partito con i ministri per discutere dell’azione di governo è sovietica. Fuori da qualsiasi tradizione delle democrazie occidentali.

Qual è dunque il patrimonio culturale su cui fa leva l’ex premier? Perché di una “vision”, per dirla all’anglosassone, c’è bisogno per non cadere nel dilettantismo o nell’intossicazione del potere per il potere.

Matteo Ri-Renzi non appare impregnato di valori cattolici o socialdemocratici o liberaldemocratici. Non si afferra il suo orizzonte. In queste ore qualcuno ha la tentazione di assimilarlo a Macron, a farne anzi l’antesignano. Ma attenzione: Macron ha un’educazione di eccellenza nell’Ena, il vivaio dell’élite francese. Ha un’esperienza di eccellenza nel settore economico-finanziario dell’establishment internazionale. Cose che mancano completamente a Renzi, la cui unica esperienza professionale è l’aver diretto la squadra di galoppini non contrattualizzati che lavoravano per la società del padre.

Si può governare un Paese senza una qualche forma di cultura politica? La domanda resta. Fa riflettere però che i giovani – quelli che più di tutti dovrebbero confidare nel “rottamatore” presentatosi come coetaneo – hanno bocciato all’80 per cento il suo referendum. Alle primarie del Pd i giovani erano presenti solo al 15 per cento. E’ come se quattro quinti dei neri d’America avessero bocciato Obama.

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