Matteo Messina Denaro continuava a nascondersi in Sicilia occidentale. Almeno fino al 2015. Una presenza, quella dell’ultima primula rossa di Cosa nostra, che i carabinieri del Ros hanno documentato indagando sulla famiglia mafiosa di Marsala. Sono quattordici, infatti, le persone fermate all’alba perché accusate di essere fiancheggiatori del boss di Castelvetrano. Per la procura sono colpevoli di associazione mafiosa, estorsione, detenzione illegale di armi e altri reati aggravati dalle finalità mafiose.
L’indagine della procura di Palermo ha delineato gli assetti e le gerarchie del clan mafioso di Marsala, documentando anche le tensioni interne alla famiglia per la spartizione delle risorse finanziarie derivanti dalle attività illecite e l’intervento pacificatorio – nel 2015 – dello stesso Messina Denaro. La famiglia di Marsala, sottolineano gli investigatori, “continuava a rappresentare un’entità strategica nelle dinamiche criminali d’area tanto da cagionare diretti pronunciamenti dell’indiscusso capo di Cosa nostra“.
E proprio la famiglia trapanese, capeggiata da Vito Vincenzo Rallo, “veniva sostanzialmente pacificata dall’intervento del latitante” che attraverso gli ordini comunicati da Nicolò Sfraga, capo decina marsalese e luogotenente di Rallo, “e rivelando di fatto la propria presenza nell’area trapanese, minacciava di essere pronto a risolvere manu militari eventuali inosservanze ed inadempienze dei locali uomini d’onore”.
“Sfraga – annotano i pm nelle 465 pagine dell’ordinanza di fermo – riferiva che il latitante, presente ‘in zona’ e incontrato dallo stesso Sfraga in diverse occasioni, era pronto a risolutive azioni violente per ripristinare l’ordine nel territorio marsalese, propositi momentaneamente accantonati dal latitante solo in ragione del recente arresto della sorella Messina Denaro Patrizia e dei nipoti Guttadauro Francesco e Bellomo Girolamo, nonché in ragione dei consigli ricevuti da alcuni decani di Cosa nostra trapanese, consapevoli della pericolosità, per la sopravvivenza dell’associazione mafiosa, di azione violente”.
“L’altra volta chiddu d’addabbanna (quello dell’altra parte, cioé Messina Denaro ndr) che si trova in zona, era nero come…a momenti scoppia. Lì c’è un esercito, un esercito. E questo è pronto per scoppiare”, diceva Sfraga intercettato.
In pratica nel 2015 Messina Denaro aveva comunicato ai boss di Marsala di trovarsi nei dintorni della cittadina lilibetana, inviando nello stesso momento un ultimatum: se non avessero ripristinato la pax mafiosa avrebbe ordinato personalmente punizioni per chi non ubbidiva ai suoi ordini. È la traccia più fresca della presenza dell’ultimo boss stragista nella provincia che gli ha dato i natali e che quindi ha continuato ad ospitare la sua latitanza almeno fino ad un paio d’anni fa.
A determinare i conflitti interni a Cosa nostra marsalese sarebbe stato il ruolo di capodecina di Strasatti e Petrosino, ricoperto da Nicolò Sfraga, “soggetto imposto dal capo famiglia di Marsala Vito Vincenzo Rallo ed inviso da altri affiliati, tra i quali Vincenzo D’Aguanno e Michele Lombardo che invece reclamavano il controllo di quel territorio”. Proprio D’Aguanno, avrebbe mal sopportato le “autoritarie ingerenze di Sfraga nell’imposizione di quella che veniva ritenuta un’iniqua spartizione delle risorse economiche del territorio di competenza”.
Le conversazioni intercettate hanno fatto luce su veri e propri summit organizzati per dirimere i conflitti tra gli affiliati e garantire il mantenimento di un sostanziale status quo dell’organizzazione criminale. A comunicare gli ordini emanati direttamente da Matteo Messina Denaro era lo stesso Sfraga, “esercitando la funzione di portavoce dei vertici del sodalizio mafioso”. La primula rossa, rifugiatosi in quel momento nell’area trapanese, sarebbe stata pronta a eliminare fisicamente i responsabili dei conflitti che, secondo quanto riportato da Sfraga, “erano letti dal latitante come un ulteriore possibile minaccia per l’intera associazione”. Soltanto l’arresto della sorella e dei nipoti di Messina Denaro aveva fermato l’ultimo grande latitante di Cosa nostra dall’eliminare i boss che non ubbidivano ai suoi ordini.