Prende tempo il gip di Milano Luigi Gargiulo che deve decidere sulla richiesta di archiviazione per Marco Cappato che si era autodenunciato per aver accompagnato Dj Fabo, Fabiano Antoniani, in Svizzera per il suicidio assistito. Il giudice quindi ha deciso di non accogliere in prima battuta – come riporta il sito del Corriere della Sera – l’istanza dei pm Tiziana Siciliano e Sara Arduini. L’esponente Radicale è indagato per aiuto al suicidio e sin dall’annuncio della morte del 40enne, rimasto cieco e tetraplegico in seguito a un incidente stradale, si era detto pronto ad affrontare un processo. Il magistrato ha scelto di fissare, ed è una facoltà naturalmente prevista dal codice di procedura penale, una udienza di discussione tra le parti, alle quali ha notificato la convocazione per il 6 luglio. A seguito dell’udienza il giudice per le indagini preliminari potrà poi o accogliere l’archiviazione o respingerla definitivamente e ordinare una imputazione coatta alla Procura. Se fosse così i pm potrebbero dover chiedere il rinvio a giudizio di Cappato. Il 27 febbraio scorso il politico aveva annunciato l’addio di Antoniani su Twitter:”Fabo è morto alle 11.40. Ha scelto di andarsene rispettando le regole di un Paese che non è il suo”.

Secondo i pm le condizioni fisiche di Dj Fabo “erano drammatiche. Quasi per un assurdo scherzo del destino la patologia che l’aveva privato della vista e del movimento non l’aveva reso insensibile al dolore. Il corpo, inerte, era percorso da insostenibili spasmi di sofferenza più e più volte al giorno”. Per questo i pubblici ministeri scrivono in un passaggio della richiesta di archiviazione  che “il principio della dignità umana impone l’attribuzione a Fabiano Antoniani, e in conseguenza a tutti gli individui che si trovano nelle medesime condizioni, di un vero e proprio diritto al suicidio“. Per Dj Fabo, scrivono ancora i pm, e per le persone che si trovano nella sua condizione, c’è un “vero e proprio ‘diritto al suicidio’ attuato in via indiretta mediante la ‘rinunzia alla terapia’ ma anche in via diretta, mediante l’assunzione di una ‘terapia’ finalizzata allo scopo suicidario”. Per i magistrati, inoltre, “pratiche di suicidio assistito non costituiscono una violazione del diritto alla vita, quando siano connesse a situazioni oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze o ritenuta ‘intollerabile e indegna’ del malato stesso. Non pare peregrino affermare che la giurisprudenza anche di rango costituzionale e sovranazionale ha certamente inteso affiancare al principio del diritto alla vita tout court il diritto alla dignità della vita, inteso come sinonimo dell’una a dignità. In presenza di tale principio, dunque – continuano -, e considerate le condizioni dell’Antoniani, non si può negare il diritto ad accedere a pratiche di suicidio assistito, tanto più se effettuate in un Paese membro del Consiglio d’Europa che ne riconosce la legittimità e disciplina rigorosamente i requisiti per accedervi”.

Il reato contestato a Cappato, l’aricolo 580 del codice penale, prevede la pena da cinque a 12 anni. L’esponente radicale e tesoriere dell’associazione Luca Coscioni è da sempre impegnato in prima fila per un dibattito sul fine vita e anche ultimamente grazie alla campagna Eutanasia Legale, un progetto di legge popolare che ha già ottenuto più di 110mila firme di cittadini italiani. “Quella di fissare un’udienza camerale prima di decidere se archiviare o andare avanti era – spiega l’avvocato Filomena Gallo, difensore di Cappato – una decisione nelle possibilità del giudice per le indagini preliminari e noi eravamo in attesa. È comunque un segnale positivo, perché significa che vuole approfondire”. Il giorno dopo la morte di Antoniani Cappato, denunciandosi ai carabinieri, disse che stava aiutando altre due persone. 

Secondo i pm, “non può in alcun modo essere messo in dubbio” che la “scelta di porre fine alla sua esistenza fosse per Fabiano Antoniani assolutamente volontaria” di fronte a una prognosi “tutta raccolta in un’unica, agghiacciante parola: irreversibile” e a condizioni fisiche definite “drammatiche”. Dopo vari tentativi di recuperare, tra cui anche il trapianto di cellule staminali, per lui la sentenza era “inappellabile”: a causa del grave incidente stradale “sarebbe rimasto cieco e paralizzato seppur in pieno possesso delle sue facoltà mentali”. Inoltre, il suo corpo “inerte”, si legge nella richiesta di archiviazione per Cappato, “era percorso da insostenibili spasimi di sofferenza più e più volte al giorno”. Un “dolore che solo farmaci potenti riuscivano a lenire ma al prezzo di obnubilargli la mente togliendogli così l’unico contatto con la vita che ancora gli rimaneva”.

Per Dj Fabo “rinunciare alle cure – scrivono sempre i pm – avrebbe significato andare incontro ad un percorso certamente destinato a concludersi con la morte, ma solo a seguito di un periodo di degradazione ad una condizione ancora peggiore di quella in cui si trovava nel momento in cui ha preso la sua decisione”. E in questo senso “l’ordinamento italiano, che ha come fine ultimo il perseguimento del ‘pieno sviluppo della persona umana, non può consentire una così grave lesione della dignità di un individuo”. Ritenendo che in questa situazione le pratiche di suicidio assistito “non costituiscono una violazione del diritto alla vita”, i pm hanno anche lanciato una sorta di appello al legislatore italiano, auspicando un suo intervento “urgente”, affinché si faccia “carico in prima persona del problema, disciplinando rigorosamente tale diritto”, quello del suicidio assistito anche nel nostro Paese (per altro componente del Consiglio d’Europa che ne riconosce la legittimità e disciplina rigorosamente i requisiti per accedervi) “in modo da prevenire il rischio di abuso, ad esempio, sotto forma di pratiche eutanasiche, nei confronti di persone il cui consenso non sia sufficientemente certo”.

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