KING ARTHUR – IL POTERE DELLA SPADA di Guy Ritchie. Con Charlie Hunnam, Jude Law, Astrid Bergès-Frisbey. GB-USA 2017. Durata: 126’. Voto 2,5/5 (AMP)
Orfano dickensiano, Artù cresce ribelle e muscoloso tanto da (tentare di) snobbare la prova di Excalibur: ma la magica Spada gli risponde docile e abbacinante, trasferendogli pesanti responsabilità di cui farebbe volentieri a meno. Il destino regale si chiarisce per esplicita parola di maga (inviata da Merlino, qui desaparecido): sconfiggere lo zio usurpatore che regna despotico e sostituirlo diventando Leggenda. Destabilizzatore di tradizioni, il rimescolatore di carte Guy Ritchie non vedeva l’ora di metter mano al Mito assoluto del proprio Paese, dopo aver rivisitato in chiave pop le icone di Sherlock Holmes e (operazione) UNCLE. Disarcionare l’immaginario collettivo delle origini della saga arturiana e mescolarlo al pulp video-ludico – con non poche incursioni nel mare magnum del Trono di Spade – gli è sembrato materia appetitosa al proprio stile, rockettaro e irriverente, a prescindere dai contenuti coinvolti. Così dunque appare il futuro sovrano d’Inghilterra, biondo e palestrato dalla vita al pari di un Thor che ha sostituito il martello con la Spada superstar, dalla quale ugualmente si fa governare. Nel suo contorno una gang multietnica di malridotti, più riconoscibile nell’altro mito d’Albione – Robin Hood – ma soprattutto una Londinium apocalittica, fra decadenti vestigia romane (incluso un Colosseo..) e luridi bassifondi di barbarica emergenza. La CGI governa indisturbata con superbe velleità distopiche tridimensionali, degne di un blockbuster fantasy con tutti i crismi dove però – a farla da padrona – è lo stile ipercinetico di Ritchie, sovvertitore di narrazioni rapide e ripide, tra flashback isterici e pulsioni comiche. Peccato che a sovrastare un organismo tanto “vitale” sia il caos roboante in cui versa il racconto stesso, incapace di prendere una forma commestibile nell’esasperazione dell’action battagliero e, complessivamente, di un troppo che dilaga in ogni dove. Non v’è comunque dubbio che il regista londinese abbia studiato la materia, a cominciare dall’uso pertinente di certa simbologia passando per alcune intuizioni concettuali vincenti. Eccellente il commento musicale metal-tribe affidato a Pemberton, che sapientemente ha mescolato i rumori degli oggetti inquadrati al suono di strumenti d’epoca.