Google paga al fisco italiano 306 milioni di euro per chiudere il contenzioso. Oggi non è semplice far emergere la base imponibile di una multinazionale in un singolo paese. Ma è l’obiettivo da raggiungere. A partire da una proposta di direttiva europea.

di Tommaso Di Tanno (Fonte: Lavoce.info)

Multinazionali e fisco

I fatti: Google ha definito la contestazione in corso col fisco italiano pagando 306 milioni; Apple ne ha pagati l’anno scorso 318. Considerato che la definizione avviene attraverso un cosiddetto “accertamento con adesione”, che comporta il pagamento di sanzioni pari a un terzo dell’imposta e che si applicano ordinari interessi di mora per quanto a suo tempo non pagato, si può sommariamente concludere che quella effettiva (Ires+Irap) risulta dell’ordine di 200 milioni cui corrisponde una base imponibile di circa 645. Importi riferiti, peraltro, più annualità (almeno due per Google; quattro per Apple).

Sono valori credibili? Impossibile affermarlo con certezza: ma il senso comune dice che non lo sono. Perché allora dall’Agenzia delle entrate (e dalla procura di Milano) si trattiene a stento la soddisfazione? La verità è che raramente si è assistito a situazioni in cui era (ed è tuttora) sfacciata la distanza fra ciò che è percepito come “giusto” (Google deve pagare le tasse in Italia) e ciò che la legge dispone (Google è tenuta a pagare solo se sussistono certe condizioni). Le attività svolte in Italia da un’impresa multinazionale sono, infatti, qui tassabili solo se opera in Italia mediante una stabile organizzazione.

Questa modalità operativa rimanda a concetti di fisicità che la web economy salta agevolmente. L’attività economica del comparto viaggia (può viaggiare) comodamente solo in rete, senza bisogno di uno stabilimento e neanche di uno stanzino. Ne consegue che non insedia alcuna stabile organizzazione in Italia, perché non ne ha bisogno. Oppure la insedia, ma solo per servizi di natura fisica – di per sé poco profittevoli – evitando di farvi transitare le attività dematerializzate più redditizie.

Conclusione: ridottissime basi imponibili in Italia. Realizzo di profitti altrove, meglio se in paradisi fiscali. La situazione è comune a buona parte dei maggiori paesi Ue e ci si interroga su come porvi rimedio. In sede Ocse il gruppo Base erosion and profit shifting (Beps) è da tempo al lavoro, ma i risultati scarseggiano. In Gran Bretagna si è tentata la via della diverted profit tax, che si sostanzia nell’attribuzione di rilevanti poteri antielusivi nelle mani dell’amministrazione finanziaria in tema di stabile organizzazione. Il sistema italiano è fermo sul piano normativo; ma sta reagendo, nei fatti, combinando l’azione della magistratura con quella del fisco.

Si è così creata la categoria davvero originale della stabile organizzazione occulta. Dicitura che emerse quasi 20 anni fa col caso Philip Morris e che si riproduce oggi con Google. È basata sul reperimento di documenti (come comunicazioni, procure, viaggi di personale, transiti bancari) che consentono di affermare che quelle attività profittevoli gestite direttamente dall’estero devono, in realtà, essere attribuite a quella minimale organizzazione italiana presente sul territorio e, quindi, ivi tassate (vis attractiva della stabile organizzazione). Insomma, si usano piccole ingenuità o disfunzioni organizzative per confermare tesi che farebbero altrimenti fatica a stare in piedi. Non a caso il concetto di “stabile organizzazione occulta” non è stato, in 20 anni, ripreso da alcuna amministrazione o giurisprudenza di paesi che pure vivono la stessa nostra problematica.

Soluzione dalla proposta di direttiva europea

Ma perché, allora, le due multinazionali hanno accettato una così onerosa transazione? Le ragioni che portano a preferirla a un lungo contenzioso sono diverse. La prima è di ordine comunicativo: vedersi descritti come evasori fiscali fa male all’immagine scintillante e innovativa che queste imprese vogliono presentare. La seconda è più autentica e meno confessabile: non ci si fida né del fisco né della giustizia italiana.

Gli argomenti giuridici che stanno alla base della “stabile organizzazione occulta” sono, infatti, assai modesti; reggono solo perché è avvertito lo squilibrio fra norma scritta e sua capacità di regolare un fenomeno altrimenti del tutto intangibile. In queste situazioni la multinazionale fa i suoi conti e sceglie per il meno peggio. Pagare un’imposta non dovuta, a volte, può essere più saggio che opporvisi. Tanto la base imponibile vera resta ben nascosta perché non ne vengono rivelate le componenti.

Ma è proprio la loro emersione l’obiettivo da porsi e non può venire che dal raccogliere informazioni sui flussi di denaro che provengono dall’Italia e vanno verso un paese estero. Queste informazioni stanno alla base della proposta di direttiva Common corporate consolidated tax base (Ccctb) che, non a caso, non si cura dei redditi dichiarati dalla stabile organizzazione ma ripartisce la base imponibile comune (ahimè, al momento, solo europea) esclusivamente in relazione ad alcuni parametri, il più rilevante dei quali è proprio il luogo di produzione dei flussi economici.

La proposta, in consultazione, è stata respinta dagli uffici competenti di alcuni paesi Ue, Irlanda e Lussemburgo in testa, mentre è stata approvata, tra gli altri, dall’Italia. Certo è che il nodo sta nel rendere obbligatorie le informazioni sui flussi dei pagamenti per applicarvi un criterio di ripartizione della base imponibile che prescinda dal reddito e si concentri sugli esborsi di ciascun paese (come fa, sostanzialmente, la Ccctb). E alcune proposte di legge italiane sembrano muovere proprio nella stessa direzione (vedi il disegno di legge AS 2526/2016 presentato dal senatore Mucchetti).

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