Gli oltre 1.500 dipendenti di Popolare Etruria, Banca Marche e Carichieti che Ubi manderà a casa sono solo il primo assaggio. Di qui al 2020-2021 si stimano circa 30mila uscite dal settore. Se questi lavoratori riceveranno circa 200mila euro a testa, come è accaduto finora, serviranno almeno 6 miliardi. Così lo Stato potrebbe dover sborsare ancora di più rispetto ai 20 miliardi preventivati lo scorso dicembre
Concluse le celebrazioni ufficiali per la cessione delle tre good bank al gruppo Ubi al prezzo simbolico di un euro, è arrivato puntuale al tavolo il conto sotto forma di esuberi: di qui al 2020 verranno tagliati 140 sportelli e mandati a casa 1.569 dipendenti. Si tratta di un terzo della forza lavoro di Banca Marche, Popolare Etruria e CariChieti. Il dato non è sorprendente: per riportare le tre banche sul sentiero della redditività è assolutamente necessario incidere, e drasticamente, sui costi operativi. Un problema che, in termini meno urgenti forse ma altrettanto contingenti, ha l’intero sistema bancario italiano. Lo stesso gruppo Ubi, a livello complessivo, prevede una riduzione di 4mila dipendenti a fronte dell’assunzione di circa 900 unità per un taglio “netto” di 3mila persone e la chiusura di 370 sportelli, di cui 170 appunto fanno capo ai tre istituti appena acquisiti.
Come da tradizione non ci sarà alcun licenziamento: la riduzione del personale verrà gestita assieme ai sindacati facendo ricorso agli esodi volontari e ad altri strumenti, quali ad esempio cessioni di rami d’azienda e il gruppo guidato da Victor Massiah ha sicuramente i mezzi per condurre in porto l’operazione in modo non traumatico. Dal fronte sindacale però cresce la preoccupazione sia per il caso specifico delle tre cosiddette good bank, sia a livello più generale dato che si stima che di qui al 2020/2021 ci saranno circa 30mila esuberi nel settore.
Per quanto riguarda i territori, il contraccolpo rischia di essere molto pesante soprattutto perché il centro decisionale verrà spostato al di fuori di essi. Ad esempio, nel caso dell’ex Popolare Etruria – che verrà ribattezzata Banca Tirrenica nel tentativo di far dimenticare in fretta il suo scandaloso passato che non passa – il piano industriale di Ubi non indica Arezzo come sede della direzione della macro area, cosa che mette in allarme non solo il sindacato, ma anche le istituzioni locali perché significa che tutte le decisioni verranno prese altrove. Il timore, legittimo, è che perdendo il contatto con la banca l’intero territorio finisca con il perdere peso e venga meno il sostegno al sistema produttivo locale aggravando la già pesante crisi che ha colpito l’economia delle piccole e medie imprese.
Il rischio, ancora una volta, è che una questione di vitale importanza per l’economia italiana non venga affrontata con serietà perché il governo a tutti i livelli sembra fare affidamento sulle proprietà taumaturgiche di una ripresa che, in realtà non si è ancora vista. Mentre l’Istat nelle sue rilevazioni di aprile ammonisce che la già debole crescita del Pil registrata all’inizio dell’anno si sta affievolendo, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sprizza ottimismo da tutti i pori e al suo omologo (si fa per dire) statunitense Steve Mnuchin racconta di un sistema bancario italiano “normalizzato”, i cui casi critici sono stati affrontati e gestiti (davvero?), e il cui tallone d’Achille – i crediti in sofferenza meglio noti internazionalmente come npl – si sta fisiologicamente riducendo grazie (sic) all’occupazione in ripresa, e al miglioramento di export e consumi (secondo l’Istat l’export è fermo e l’unico trend consolidato è la ripresa dell’inflazione che rischia comunque di invertire nuovamente la rotta per effetto dei cali del prezzo del petrolio registrati nelle ultime settimane).
La fragilità della ripresa italiana rischia dunque di giocare l’ennesimo brutto scherzo al governo che, sia detto per inciso, per le banche dovrà trovare ancora parecchi miliardi di euro. Non si tratta solo dei salvataggi miliardari di MontePaschi e delle due venete, che non hanno comunque ricevuto ancora nessun via libera europeo, ma dell’altro tallone d’Achille del sistema italiano: la gestione degli esuberi. Il problema è spinoso perché i numeri sono grossi (circa 30mila dipendenti in tre anni), talmente grossi che è assai improbabile che le banche riescano a gestirli facendo esclusivamente ricorso a risorse proprie come è stato in passato. Negli anni scorsi le uscite volontarie si sono tradotte in media in un versamento di 60mila euro per tre anni e mezzo, vale a dire circa 200mila euro a uscita.
Se questo parametro dovesse essere mantenuto anche nei prossimi anni, è evidente che per finanziare 30mila esuberi occorrerebbero almeno 6 miliardi di euro. Il fondo esuberi delle banche è quasi a secco e le banche piangono miseria perché oltre ai problemi più o meno grossi che ognuna di loro si ritrova, hanno dovuto farsi carico della risoluzione di Popolare Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara che è costata oltre 5 miliardi di euro e dovranno pure farsi carico di rimborsare il prestito ponte da 1,7 miliardi erogato a suo tempo da Intesa Sanpaolo, Unicredit e Ubi. Insomma, tra salvataggi ed esuberi – alcuni dei quali saranno a carico esclusivo dello Stato qualora questo dovesse diventare l’azionista di maggioranza delle banche più disastrate – alla fine il conto che dovremo saldare sarà ben più alto dei 20 miliardi preventivati con lo stanziamento a debito effettuato dal governo nel dicembre 2016.