Maria Antonietta Gualtieri istruiva i suoi collaboratori prima che si presentassero in caserma per essere ascoltati dai finanzieri. “Spiegava l’Ave Maria”, come diceva lei stessa. Un disperato tentativo di inquinare il quadro probatorio
Se i finanzieri avessero chiesto di lei, la sua collaboratrice avrebbe dovuto rispondere con una battuta: “Dì, l’abbiamo soprannominata Miranda de Il Diavolo veste Prada, perché è una che vuole la precisione in tutto”. Maria Antonietta Gualtieri, la presidentessa dell’associazione Antiracket Salento, istruiva i suoi collaboratori prima che si presentassero in caserma per essere ascoltati. “Spiegava l’Ave Maria”, come diceva lei stessa mentre era intercettata. Un disperato tentativo di inquinare il quadro probatorio che gli investigatori coordinati dai pm della procura di Lecce, Massimiliano Carducci e Roberta Licci, stavano già ricostruendo e hanno delineato nell’indagine chiusa con 4 arresti, 7 interdizioni. Trentadue gli indagati, accusati a vario titolo di corruzione e truffa.
Lei, la numero uno del “sistema” che avrebbe drenato fondi pubblici con la scusa di assistere le vittime del racket nel Salento, voleva rendere inattendibili le dichiarazioni del collaboratore della sede di Taranto che, sentito dalle Fiamme Gialle, aveva riferito dettagli e situazioni che potevano lasciare intuire la truffa. Prestazioni inesistenti che, secondo quanto ricostruito nel corso delle indagini, sarebbero state finalizzate a ottenere un finanziamento da due milioni di euro destinato alle vittime dell’usura a Lecce, Brindisi e Taranto. I soldi, assegnati dall’Ufficio del Commissario straordinario antiracket istituito presso il ministero dell’Interno, sarebbero invece finiti nelle sue tasche e in quelle di altre “personalità particolarmente inclini a delinquere” come quelle di due funzionari del Comune di Lecce, arrestati anche loro.
Nel corso degli anni, Gualtieri aveva sempre rigettato le ombre che si addensavano sulla sua associazione, ma davanti all’indagine aveva iniziato a preoccuparsi. “Dobbiamo rischiare per un coglione, per uno… se ne deve andare a calci in culo”, si lamentava nell’ottobre 2015, consapevole di essere nei guai. “Sto nella merda proprio”, ripete più volte mentre gli uomini del Nucleo Tributario ascoltano. Aveva paura di finire in manette e lo ammetteva a una delle sue più strette collaboratrici, Serena Politi, ora ai domiciliari: “E chi dorme stanotte, madonna, me ne portano”, diceva agitata. E allora bisognava attrezzarsi, trovare una soluzione. Per il gip Giovanni Gallo, che ha disposto gli arresti, quelle parole captate dalle microspie sono delle “confessioni stragiudiziali” che dimostrerebbero come a fronte dei “nobili intenti” dell’associazione, il progetto sarebbe in realtà servito “a lucrare tutti i finanziamenti ed emolumenti statali possibili, attraverso la continua creazione di falsi rapporti di collaborazione, report relativi alle attività mai svolte, fatturazioni per prestazioni in realtà non eseguite”.
Come quelle della società che avrebbe dovuto svolgere le pulizie negli sportelli Brindisi e Taranto. In realtà, le due sedi non sarebbero state tirate a lucido da chi veniva pagato per farlo. Tanto che quando una adetta viene convocata dagli investigatori, Gualtieri le mostra le piantine degli stabili dove l’Antiracket Salento operava così che le fosse chiaro almeno quali erano gli arredamenti e come erano organizzati gli spazi. Per dissimulare, la presidentessa e Politi “facevano molto affidamento” su un’altra collaboratrice chiamata dai finanzieri “tenuto conto delle allettanti proposte lavorative che le avevano fatto”, scrive il gip. Durante il secondo colloquio con gli investigatori, però, la ragazza crolla: ammette di essere stata ‘istruita’ e che “le era stato promesso un posto di lavoro se avesse dichiarato fatti non corrispondenti al vero”. Del resto, diceva Gualtieri, “se tu fotti noi, ti fotti da sola”.
E nel noi, nel “sistema”, come lo chiama il gip, c’erano diversi professionisti: avvocati, commercialisti, funzionari pubblici. In qualche modo c’era finito anche l’assessore al Bilancio del Comune di Lecce, Attilio Monosi. L’esponente di Direzione Italia, per il quale il pm aveva chiesto l’arresto, non avrebbe avuto un ruolo “occasionale”, ma piuttosto una condotta “inserita in un sistema diretto a favorire funzionari e imprenditori amici”. Tra i quali Giancarlo Saracino, pure lui indagato e interdetto. Secondo il giudice, infatti, l’assessore, “venuto a conoscenza del pagamento indebito effettuato” in favore dell’imprenditore per dei lavori presso lo sportello leccese dell’Antiracket Salento, “concorreva in maniera spregiudicata” alla formazione “degli atti falsi necessari a far ottenere un nuovo pagamento” da 130mila euro. Le accuse gli sono costate l’interdizione dai pubblici uffici, ma non il posto in lista alle prossime elezioni. Il candidato sindaco del centrodestra, Mauro Giliberti, fittiano di ferro, ha fatto sapere che l’assessore “resta candidato” perché lo permette la legge Severino e “Morosi è amministratore attento al pubblico interesse”. Poi in serata sono arrivate le dimissioni.