Anche nelle agiografie si possono scovare tracce di verità storiche. È il caso di Macron – La rivoluzione liberale francese (Marsilio), scritto dal giornalista de Il Foglio, Mauro Zanon, libro agile e dettagliato in cui si sintetizza l’ascesa del movimento politico En Marche! e di Emmanuel Macron alla presidenza della repubblica francese. Scontando la devozione mistica dell’autore, ostinato a lucidare ogni mattonella che Macron pesta nel suo fulmineo cammino verso l’Eliseo, dalle pagine di questo instant book si possono ricavare parecchi elementi oggettivi per cominciare a delineare il fenomeno politico che ha sorpreso francesi e non. Intanto il volume è suddiviso per capitoli che avanzano cronologicamente all’incirca dai vent’anni di Emmanuel, quel “fottuto banchiere” dei Rothschild che poi diventerà il più classico ministro “riformista” pro liberalizzazioni del governo Hollande, arrivando fino a pochi giorni prima delle presidenziali 2017 che, ricordiamolo, lo hanno visto sopravanzare al primo turno tre avversari con scarti relativamente bassi (LePen, Fillon e Melenchon), e poi trionfare al secondo turno contro l’estrema destra del Front National di Marine LePen.
Il discorso di Zanon, teso a dimostrare l’eccezionalità del progetto macronista, propone da un lato i dettagli strategici e comunicativi nella costruzione dell’immagine di Macron “neofita” della politica che in Italia non erano ancora stati sistematizzati a dovere; dall’altro compie un’analisi filosofico-politica del verbo macroniano post ideologico, legato alle nuove generazioni 2.0. e in continua gestazione che, se non fosse per questo mantra celebrativo del politico senza partiti oramai dilagante e senza costrutto oggettivo, filerebbe diritto nell’ampia categoria del partito personale, presente perfino nell’acronimo delle iniziali di nome e cognome (EM: Emmanuel Macron – En Marche!). Formulazione teorica che un politologo importante come Ilvo Diamanti descrisse così su Repubblica in un articolo intitolato “La deriva del partito personale” partendo dal “modello ‘Berlusconi”: “il leader crea il partito e gli fornisce un senso”. Non a caso la prefazione di Macron – La rivoluzione liberale francese è redatta con maestria dialettica da Giuliano Ferrara, che in un recente editoriale su Il Foglio ha definito Macron come “l’incarnazione di Renzi e di Berlusconi” e che, addirittura nell’introdurre il lavoro di Zanon, scarica perfino Trump: “Macron è l’incredibile divenuto fenomeno politico, anche più di quanto non lo sia stato Donald Trump, con le sue mattane, nella vicenda presidenziale americana”.
Dicevamo della costruzione dell’immagine del politico nuovo e fuori dai giochi di potere. Il cammino di Macron per lo scranno presidenziale non nasce ovviamente dal nulla, nonostante il messaggio venga venduto in questi termini, bensì da questa sua apparente irrequietezza a far parte di un ambito professionale lavorativo per più di tre o quattro anni. Ed in questo l’enfant prodige rappresenta concretamente una certa idea di flessibilità lavorativa all’americana, se non altro, e qui tornano le “classi” tanto vituperate dalle rivoluzioni liberali, per la classe medio-alta della borghesia finanziaria, dove la possibilità di spostarsi orizzontalmente a livello di remunerazione e tipologia di attività è stata difficilmente intaccata da crisi settoriali e presunte rendite di posizione dei moloch statalisti, altro oggetto d’accusa spasmodica nella campagna elettorale del neopresidente. Macron è l’esempio lampante di questo zigzagare continuo tra un lavoro e l’altro, proprio come descrive Zanon: Ispettorato generale delle finanze, funzionario di una potentissima banca d’affari (“eccelleva nella capacità di sedurre i clienti”), membro della prestigiosa Commissione Attali voluta dal presidente Sarkozy dove tutti lo adorano, e infine ministro dell’Economia. Il tutto quando ancora ha poco più di 30 anni. E in questo continuo peregrinare tra think tank francesi di rinnovamento del socialismo che si appoggiano a lui (nel libro di Zanon ne vengono elencati a decine), Macron incontra banchieri, economisti liberisti, direttori di giornale (ha condotto trattative dall’ufficio Rothschild per la vendita di Le Parisien e ha orientato gli investimenti di Le Monde), geni del web e della comunicazione, un po’ di troika eurocentrista come Juncker e Schauble, anche se Emmanuel si rammarica spesso di “essere frustrato per non poter incontrare gente comune quanto vorrebbe”. Chiaro che prima o poi tutta questa pletora di classe dirigente, quindi quello che la Francia già ha al ponte di comando del paese, a parte il fastidioso Hollande troppo schiavo delle tasse sui ricchi volute da Piketty, verrà portata in dote a qualcosa o a qualcuno. Macron sceglie di tenerla per sé, dopo aver scavato sotto i piedi dell’oramai agonizzante PS (le similitudini tra Renzi e il PD si sprecano). Ed è qui il pezzo di bravura del nostro, un ragazzino a cui Henry Hermand, il “mecenate della sinistra progressista”, nel 2007 “presta 500.000 euro per comprarsi un appartamento a Parigi, prima di sostenerlo, sul piano delle idee ed economicamente, nella sua cavalcata verso l’emancipazione dal governo socialista e la creazione del suo movimento”.
Nell’estate del 2015 Macron si dimette dalla compagine ministeriale dei frusti socialisti, richiama gli amici e colleghi di studi di “vecchia” data, Ismaël Emelien e Guillaume Liegey e inizia la “Grande Marche”. Liegey è il titolare della prima start up di strategia elettorale europea: la Liegey-Muller-Pons (Lmp): scuola da Obama, salvagente per Sarkozy nel guadagnare qualche centinaia di migliaia di voti in più contro la socialista Royal nelle presidenziali 2007. La Lmp coniugando “Big Data e porta a porta (…) si adopera anzitutto per formare i volontari, scelti tra quelli che si erano iscritti spontaneamente sul sito di En Marche!”, spiega Zanon. “Sulla base di un’analisi minuziosa dei 68.000 seggi elettorali del paese e di uno studio sociologico di migliaia di quartieri, gli «helpers» vengono spediti in quelli più rappresentativi della società. In 6200 quartieri selezionati da Lmp, vengono raccolte centomila conversazioni e compilati venticinquemila questionari. I «marcheurs», come vengono chiamati i volontari macronisti, hanno a disposizione due app fornite da Lmp: la prima, 50+1, per orientarli nella loro marcia sul piano socio-demografico, e la seconda, Je Marche!, per aiutarli a cogliere al volo il succo delle conversazioni con gli elettori, che in media durano una quindicina di minuti”.
Così se da un lato veniamo a conoscenza di come En Marche! sia nato economicamente e si sia sviluppato rapidissimo a livello strategico, ecco sopraggiungere il contenuto del verbo macronista, riassumibile nella frase che crea scandalo quando ancora Macron era ministro: “Il liberismo è di sinistra”. Macron definito per le sue aperture al mercato “l’uberista della politica”, nonostante la generica retorica di un’assenza ideologica forte, costruisce “la svolta liberista della sinistra” rifacendosi ad ampi dettami della dottrina neoliberista non dissimile dall’impalcatura macroeconomica repubblicana e trumpiana statunitense. Zanon elenca con dovizia di particolari le filiazioni intellettuali del nostro (il rapporto intenso con Paul Ricoeur, Dominique Strauss-Kahn, l’elogio dell’ottuagenario filosofo Jurgen Habermas), anche se è nelle sue detonazioni valoriali e idealiste che Macron svuota il socialismo a livello concettuale per riaprire una bottega liberalista non nuova nel mondo occidentale, ma abbastanza sorprendente in Francia perché come riportato sul saggio Marsilio con le parole del politologo Thierry Letierre: “Il liberalismo è stato sommerso a destra dall’autoritarismo, bonapartista poi gaullista, e a sinistra dal socialismo, compresa la sua forma comunista. Per la prima, il punto di riferimento è la nazione, per la seconda le classi sociali, ma in nessun caso l’individuo, che è invece il punto di riferimento del liberalismo”.
Insomma, è perfino lo stesso Zanon a scrivere “grazie al lavoro ideologico di fondo, che per molti era assolutamente inimmaginabile in ragione della sua totale mancanza di esperienza politica, Macron riesce progressivamente a imporre le sue idee liberali all’interno del proprio campo politico”. E si sa, a destra non c’è bisogno di farsi largo visto che quell’impianto teorico è almeno vagamente già presente. È invece a sinistra che si inietta il virus per avvelenare il pozzo. Ecco allora il concetto di “libertà” che prende il posto di quello di “uguaglianza”, la “società della mobilità” al posto della “società degli status”, il mantra della “semplificazione delle regole”, come della “maggiore flessibilità”. Tutto coronato da un bonus cultura da 500 euro per i neo diciottenni, inserito nel programma di En Marche! proprio come il fu governo Renzi, e da una dose da cavallo di sintesi europeista che come diceva Jacques Delors – un altro socialista non socialista alla Michel Rocard incompreso dai colleghi di partito – “nessuno si innamora di un mercato unico per questo dobbiamo completarlo con una vera e propria affectio societatis”. L’ultima parola a Zanon: “È una generazione, quella che si rispecchia nelle battaglie macroniste, cresciuta nell’Europa della mobilità, dell’Erasmus, della libera circolazione delle persone e dei beni, una generazione perennemente in viaggio, iperconnessa, postideologica, affascinata dai disruptors dell’economia, Uber, Airbnb, BlaBlaCar, KissKissBankBank, che guarda i film su Netflix e ascolta la musica su Spotify, che preferisce intraprendere che restare a vita nella pubblica amministrazione, che non idolatra il contratto a tempo indeterminato e crede nella «società della scelta» per combattere le diseguaglianze”.