In un’intervista rilasciata a Radio Popolare qualche giorno fa, il leader di DiEM25 Italia Lorenzo Marsili ha concesso il beneficio del dubbio al neoeletto presidente francese Emmanuel Macron: “Se, invece, Macron riuscirà a mettere in campo politiche di rottura, a coinvolgere anche un establishment tedesco sempre restio ad ipotesi di trasformazione della zona euro, allora si aprirà senz’altro un’altra fase”. Certo, Marsili è scettico che ciò accada, ma è in particolare il fatto che Macron abbia messo l’Europa al centro (“una cosa positiva”) a fargli nutrire qualche speranza.

Vorrei qui esprimere un pensiero critico e tuttavia rispettoso nei confronti di questa posizione e ciò che la ispira. Lo ammetto, anche a me piacerebbe che le annose questioni che ci attanagliano oggigiorno potessero trovare una risposta continentale decente. Perché è certamente vero che, sulla carta, l’unione fa la forza e che di fronte a sfide sempre più globali la dimensione da cui ci si attrezza per darvi risposta non è un fattore indifferente. Accade però che le istituzioni europee abbiano smesso già da molto tempo di incarnare quei valori di democrazia, pace e giustizia sociale che avevano portato alla loro costituzione, e questo Lorenzo lo sa molto bene.

La questione spinosa e problematica, piuttosto, mi sembra quella di anteporre una visione europeista rispetto al contenuto che essa incarna. Macron vuole più Europa. Ma quale Europa vuole? Vuole un’Europa di ulteriore tagli allo Stato sociale, di licenziamenti di decine di migliaia di lavoratori pubblici, di più mercato sregolato, di un nuovo diritto del lavoro per flessibilizzare ulteriormente le già precarie esistenze di giovani e meno giovani. Macron è un estremista di centro: un difensore acerrimo dello status quo che sostiene il diritto delle élite di arricchirsi a dismisura a costo di maggioranze sempre più impoverite. Ora, trovare importante la sua enfasi sull’Europa ed estendergli un credito di fiducia oscura il contenuto in favore dell’involucro e rischia di condurre a errori strategici di non poco conto.

Non si tratta di abbracciare pulsioni nazionaliste o di trincerarsi dietro allo Stato in virtù di visioni antiquate. Il fatto è che la riforma dell’Unione Europea, il “cambio da dentro”, come si suol dire, è escluso dalla sua stessa architettura istituzionale e giuridica. Il suo carattere sovranazionale fa sì che per ottenere un cambio reale (non quello dei 0 virgola à la Renzi), questo si debba verificare simultaneamente in un numero sufficiente di Paesi tale da incidere sulle geometrie politiche del Consiglio Europeo. Sappiamo però che i calendari elettorali sono sfasati e seguono ancora percorsi e dibattiti perlopiù nazionali. E sappiamo anche che appena uno Stato membro prova a deviare dal tracciato, come ci insegna il tragico esempio della Grecia, viene colpito da punizioni esemplari che ne soffocano le velleità. Qui, dunque, il rischio dell’europeismo di maniera è quello di attaccarsi a tutti i costi al capestro di un miraggio fraudolento.

D’accordo, se avessimo un governo di ispirazione popolare, un tentativo per cambiare l’Europa andrebbe pur fatto, ma di fronte all’ennesimo rifiuto, cosa faremmo? Ci dovremmo piegare alle imposizioni, perché, dopo tutto, l’Europa sta al centro e questo è (l’)importante? Non va dimenticato che l’Italia, oltretutto, non è la Grecia e le sue dimensioni le darebbero uno spazio di manovra di gran lunga più ampio. Ecco, mi sembra che la lotta per riprenderci almeno un pezzo di quella sovranità che ci è stata tolta – una battaglia cara a Podemos, senza dubbio il soggetto emancipatore più avanzato in Europa – andrebbe fatta nostra: certo non la sovranità sciovinistica e gerarchica cara ai reazionari che soggioga e riproduce l’oppressione su scala nazionale, bensì la sovranità popolare, ossia la possibilità di restituire alle popolazioni europee la potestà di decidere su aree ormai sequestrate da un rapace establishment economico. Ho detto le popolazioni europee: perché non è una lotta solo italiana, ma europea (e persino globale); solo che la sua declinazione non può che avvenire nei contesti dove la sovranità può essere ragionevolmente riconquistata.

Non è del resto palese che Melénchon abbia fatto il salto di qualità proprio quando ha iniziato a parlare la lingua del suo popolo, a connettersi alle battaglie locali, uscendo dal guscio del vocabolario di sinistra e promettendo di lottare contro l’Unione Europea se non avesse fatto caso alla richiesta francese di un cambio di rotta? In un recente viaggio a Quito, il leader di DiEM25 Yanis Varoufakis ha parlato del leader di France Insumise nei termini più sprezzanti possibili: il suo scetticismo per il candidato francese più dignitoso stona clamorosamente con l’entusiasmo dimostrato successivamente per l’esponente di quel centro social-liberale che così tanto male sta facendo all’Europa.

@mazzuele

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