Roger Waters ha sempre odiato le interviste. Ancor più video. Per questo il faccia a faccia che ha concesso in esclusiva al Fatto Quotidiano, lo scorso fine aprile a New York, ha un valore storico. Intervistarlo, anche per chi come me lo ama e ne conosce praticamente ogni snodo, non è per niente facile. Tanto per capirsi, una volta Nick Mason ha detto: “Quando Roger lasciò i Pink Floyd, ci sentimmo come l’Unione Sovietica dopo la morte di Stalin”. Intervistarlo è un po’ come stare sul ring ed essere lo sfidante di un campione invalicabile. Stai lì, ci provi e speri prima o poi che il Campione abbassi almeno una volta la guardia. Per fortuna è successo. Guardandolo da vicino, è come se ogni tanto (spesso) gli passassero davanti agli occhi delle nubi. Nubi foschissime. Lì Waters si incupisce: si irrigidisce.
Come ho scritto nell’intervista uscita sul Fatto e poi (in versione estesa) su questo sito, la sua testa colleziona una galassia di ferite e cicatrici. E da quelle cicatrici sono nati e nascono i suoi infiniti capolavori. Waters ha accettato senza riserve di parlare di tutto: del nuovo disco Is This The Life We Really Want?, dei concerti, dei precedenti lavori solisti. Del passato coi Pink Floyd, del padre morto nel ’44 durante lo sbarco ad Anzio. Del rapporto con il produttore Nigel Godrich, del suo essere un bassista “stravagante”. Del “citrullo” Trump. E dei suoi demoni, che oggi gli danno un po’ più tregua. Di alcune cose ama parlare (il presente), di altre no (il passato). Ma certe domande dovevo farle: ero lì come giornalista, non come apologeta. E quando gli ho chiesto se sperasse di avere un posto nella storia, ho temuto sul serio che mi squarciasse con l’ascia di Careful with that axe, Eugene.
Nei 22 minuti – dei trenta e più minuti passati insieme – che vi attendono, noterete tre fasi. La prima, in cui è rigido e guardingo (ma garbato). La seconda, in cui si stupisce di una domanda inusuale (quella su Eric Clapton) e si rasserena, forse tranquillizzato dal fatto che chi aveva davanti conosceva il suo percorso. E la terza, in cui prima si commuove parlando del padre e poi si esalta per la sua dimensione live. Gli ultimi minuti sono tutti da vedere e sembrano quasi uno sketch comico: stupito da una mia citazione di Gilmour, ha reagito quasi come De Niro/Travis Bickle in Taxi Driver quando dice allo specchio “Stai parlando con me?”. Ne è nato un siparietto divertente: ammetto che mi è venuto da ridere, e nel video si vede. Alla fine mi ha sorriso (addirittura) ed è stato molto disponibile. Quando se n’è andato, dopo alcuni minuti di chiacchierata ulteriore sul nuovo disco e non solo (che trovate nell’intervista scritta), ho chiesto al suo ufficio stampa che impressione avesse avuto. Lei: “Bella. Lo ha visto un po’ cupo? Mi dia retta. Lavoro con Roger da vent’anni. E’ la sua maniera di dire che è stato bene, altrimenti si sarebbe alzato dopo tre minuti”. Avrei voluto chiedere molto di più, ma avevamo l’obbligo di stare entro i 20 minuti (che puntualmente ho sforato). Infatti, a un certo punto, noterete come mi facciano cenno che il tempo stava finendo (“Last question”). Per me intervistare non solo il mio mito, ma più ancora uno dei più grandi geni contemporanei, è stato un piacere e un onore. Spero davvero che piaccia anche a voi. Shine On.
P.S. Sì, lo ammetto. La frase “I usually call you God” gliel’ho detta sul serio.
(Traduzione simultanea di Maria Galetta, sottotitoli di Claudia Benetello, montaggio di Marta Falco. Un grazie anche a Giovanni Rossi per il suo “Roger Waters – Oltre il muro”)