Il 1936 fu un anno fatidico, sotto molti aspetti: il 18 gennaio Joseph Rudyard Kipling morì di emorragia cerebrale dopo aver letto su un giornale la notizia della sua morte; a giugno Giovanni Agnelli senior presentò al mondo la Topolino; il 29 settembre nacque Silvio Berlusconi.
In quello stesso fatidico 1936 venne anche composta questa poesia:
Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
Era l’inizio di Lavorare stanca di Cesare Pavese, scritta quando il lavoro poteva ancora stancare chi ce lo aveva. Gli italiani allora erano quasi 43 milioni e a lavorare erano oltre 18 milioni e mezzo, a fronte di 460 mila disoccupati (dati archivio Istat).
Oggi in Italia, la situazione è molto cambiata, come certifica l’Istat. A parte l’inesistenza di poeti intensi come Pavese, la popolazione italiana è salita a quasi 61 milioni, dei quali a marzo risultavano occupati 22.870.000 contro 3.022.000 cittadini senza lavoro.
Per tornare al paragone storico, quello del 2017 è un incremento del 19% di occupati a fronte del 75% di disoccupati rispetto al 1936.
Il freddo dato statistico recita anche che gli occupati con più di 50 anni dall’anno scorso ad oggi sono saliti di ben 2 milioni e 700mila unità. Ormai sono oltre otto milioni: più del 35% del totale. È quasi ovvio che la disoccupazione giovanile non ne voglia sapere di scendere sotto al 35,2%: i padri sono obbligati a lavorare fino a 70 anni per contribuire all’Inps e i figli non li vuole assumere nessuno, soprattutto a tempo indeterminato.
La cosa che fa più impressione è che anche se lavora, oltre la metà di chi ha meno di 25 anni lo fa in modo precario. Tredici anni fa, i precari erano la metà di oggi. I nuovi schiavi sono marchiati Foodora, Deliveroo, Just eat, società che non hanno alcun pelo sullo stomaco a dichiarare che i loro business aumentano del 25% al mese. Non così i compensi per i loro giovani ‘cavalli’ in bici che a volte non arrivano a tre euro a consegna, senza neanche avere formalmente un rapporto di lavoro subordinato.
E qui veniamo a un grande problema che già pesa sul futuro del nostro paese. Questi lavoratori chissà se avranno mai una pensione e, se l’avranno, sarà misera. Inoltre, il frequente cambio di lavoro con tanti contratti saltuari sta creando un’erosione sistematica delle competenze. A maggior ragione, il non lavorare affatto. Una tragedia che sta trasformando eserciti di laureati in inutili titolati incompetenti.
L’oracolo dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) nel 2013 decretava: “La riforma Fornero migliorerà la crescita della produttività e favorirà la creazione di posti di lavoro, grazie al nuovo articolo 18 che riduce la possibilità di reintegro in caso di licenziamento”. E ancora non era arrivato il Jobs act di Renzi, che invece un risultato l’ha ottenuto: quello di fregare anche i padri. A marzo di quest’anno i disoccupati con più di 50 anni hanno superato il numero dei disoccupati fino a 24 anni. 567mila contro 524mila. Rispetto al 2016 sono 103 mila in più. Un successone.
Quella illusa Cassandra della Susanna Camusso e la Cgil tutta ripetono il mantra che potrebbe risolvere i problemi occupazionali e previdenziali dell’Italia e del mondo: “La parola d’ordine per uscire dalla crisi” è redistribuzione delle ricchezze.
Sarebbe indispensabile finanziare un forte welfare, con dentro magari anche un reddito di cittadinanza, introducendo per legge dei tetti (pure altissimi) ai guadagni personali e aziendali e destinare le eccedenze a chi ne ha più bisogno, se non vogliamo andare verso la sudamericanizzazione delle nostre società occidentali. Non sarebbe una patrimoniale, ma proprio un tetto alla ricchezza esagerata. Questione di morale, ma anche di saggezza.
Esagerazioni? Fate voi, ma intanto il budget per gli acquisti in Italia si è ridotto del 10%, ossia 50 euro in meno al mese per casa. Ormai le famiglie che devono scegliere il discount e impermercati per fare la spesa sono il 28,4%, mentre sono addirittura il 42,1% quelle a caccia di promozioni e di generi di primo prezzo. E quando si comincia a spendere meno persino per mangiare, vuol dire che qualcun altro sta mangiando veramente troppo.