Non c’è dubbio: la sentenza della Corte di Cassazione sull’assegno di mantenimento in caso di divorzio era nell’aria. Era crescente nell’opinione pubblica la convinzione che quei padri sempre più numerosi costretti a vivere in condizioni miserevoli, a tornare a casa dei genitori, a mangiare – anche questo succede – alla Caritas, privi insomma di qualsiasi mezzo di sostentamento (basti pensare che la legge fissa a 600 euro il reddito minimo per il coniuge che versa, un vero assurdo) fossero uno scandalo a cui bisognava porre rimedio. E anche se nel caso che ha generato la sentenza  – quello dell’ex ministro Grilli e sua moglie – non c’era rischio di indigenza per il marito, le conseguenze di un’interpretazione (ancora non è legge, anche se c’è chi la auspica) potrebbero valere per molti.

La rivoluzione sta lì: dove si sostiene che l’assegno non debba più in alcun modo garantire al coniuge lo stesso tenore di vita di prima, ma solo versare un mantenimento che consenta all’altro di (soprav-)vivere. Questo mantenimento può venire a mancare quando, in base ad alcuni criteri, pure ragionevoli, si dimostra che il coniuge che chiede l’assegno è autosufficiente: redditi, patrimoni, possibilità di lavorare, casa di abitazione. Ma sarà onere del coniuge debole, cioè praticamente la donna, dimostrare di non avere abbastanza per andare avanti da sola. Resta invece invariato l’obbligo di mantenimento dei figli. Messa così, sembra una sentenza coerente, priva di qualunque ingiustizia, non sbilanciata a favore di alcun coniuge. A guardare bene, però, le cose stanno diversamente. E per capirlo bisogna mettere questa sentenza sullo sfondo della situazione economica e sociale italiana, e delle condizioni dei due genere, uomo e donna nel nostro paese.

Anzitutto una premessa: che la Corte dica che il matrimonio non debba essere inteso come una sistemazione lo trovo abbastanza offensivo verso le donne. Ci saranno anche le scroccone che si sposano per soldi, ma onestamente per quanto vedo in giro sono pochissime e di altre generazioni. Oggi, le giovani donne non hanno questa mentalità. Pure il richiamo al matrimonio come “scelta libera e responsabile” mi sembra una frase infelice. Tutti si sposano credendo di fare una scelta simile,  insinuare una cattiva coscienza – anche qui alla donna – non lo trovo per nulla gradevole.

Ad ogni modo, prendiamo per esempio due coniugi che guadagnino rispettivamente duemilacinquecento – lui, a tempo indeterminato – e mille lei, da precaria. Normalmente, una volta divorziati lei avrebbe avuto un piccolo assegno di mantenimento. In base alla nuova interpretazione, lei potrebbe non avere nulla, neanche il diritto alla casa, se non di sua proprietà. La Corte non ha stabilito – è solo una prima sentenza – quale sia la soglia di sostentamento sotto la quale non si può scendere, ma è probabile che in futuro sarà stabilita molto in basso. A precipitare nella povertà, insomma, sarà lei.

Altro esempio, forse più grave: consideriamo una donna che lascia il lavoro per crescere i figli, fatti con un marito professionista che guadagna molto bene. In base alla nuova lettura, anche lei avrà diritto a un assegno minuscolo, e nessuno le riconoscerà i vent’anni di lavoro a casa, che magari hanno consentito al marito di fare carriera, tranquillo che tutte le faccende domestiche e la cura dei figli fossero seguite e risolte dalla moglie. Anche perché sono molto spesso i mariti a spingere le mogli a smettere di lavorare. E queste accettano di farlo non perché ebeti, ma perché si rendono conto che in una famiglia dove tutti e due lavorano tantissimo il tasso di stress e conflittualità schizza alle stelle, con conseguenze anche sui bambini. Solo che in genere è lei a lasciare, proprio perché quasi sempre guadagna di meno e spesso molto meno. Quando i figli saranno grandi, e finirà anche il mantenimento per loro, questa donna potrebbe trovarsi senza nulla. 

C’è di più. Come ha notato la sociologa Chiara Saraceno, (e qui torniamo alle condizioni economiche e sociali), che le donne lavorino meno, guadagnino meno, siano più molto più precarie è un fatto. E no, non dite che è una scelta perché non lo è, è una triste condizione: altrimenti perché nel 99% dei casi il coniuge “debole” risulta lei? Non dovrebbe essere 50 e 50? Perciò non è vero che ci si sposa in condizioni di parità, perché la vera parità sarebbe avere stipendi simili, tasso di occupazione identici, contratti uguali.

Dunque, concludendo, quali potrebbero essere le conseguenze di questa sentenza sulle donne?

Senz’altro, un drammatico aumento della povertà. D’altronde, visto che lo Stato non interviene per aiutare le coppie separate, visto che non esiste reddito minimo e sussidio di povertà, se lui torna ad avere più soldi, lei ne avrà meno.  A questo punto alle donne converrebbe, per non restare fregate, mettere tutte le proprie energie sulla ricerca di un lavoro stabile e retribuito. Peccato che questo potrebbe voler dire lunghissimo precariato, impegno lavorativo per dieci o più ore al giorno per anni, caccia ossessiva ad un’occupazione, costi quel che costi. Tutto questo per trovare magari un lavoro decente verso i 40 anni, non a 25, come negli altri paesi.

Tutto bellissimo, Pil che cresce, insomma risultati meravigliosi. Se non fosse per un particolare: non ci sarebbero più figli, o ce ne sarebbero molti di meno. Perché sì, le statistiche dicono che chi ha il lavoro stabile fa più figli, ma questo riguarda quelle sacche felici – specie al nord – dove ancora esistono lavori stabili. Molto più diffusa è un’altra condizione, per la quale oggi i figli si fanno quando ancora magari sei precaria – se aspetti la stabilità sarai di sicuro infertile –  oppure guadagni così poco che di comune accordo col marito resti a casa per qualche anno per poterli crescere (le statistiche dicono che sono aumentate le donne che restano a casa dopo un figlio, o comunque le madri che non lavorano).

Insomma, ci vuole un compromesso, spesso al ribasso, spesso a scapito delle donne, che poi pagano un prezzo salatissimo. Ma almeno mettono al mondo qualcuno. Un dettaglio non proprio irrilevante, vista la crisi demografia del nostro paese. D’ora in poi, invece si andrà felicemente all’altare in menopausa, senza figli a fare i paggetti. Ma finalmente “liberi ed eguali”. 

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