Il professor Guido Fanelli, primario del reparto di Anestesiologia del Policlinico universitario di Parma, è agli arresti domiciliari per l’inchiesta su presunte tangenti erogate da varie ditte farmaceutiche, insieme ad altri indagati. La stessa inchiesta ha coinvolto il rettore dell’ateneo, che si è dimesso. Seguo queste vicende tramite i giornali, come chiunque, ed auspico che la magistratura raggiunga al più presto un’equa sentenza. Non conosco personalmente il professor Fanelli, né sono al corrente di informazioni specifiche sul caso in esame. So, invece, qualcosa su alcuni meccanismi del finanziamento privato della ricerca in ambito medico, e su questo posso proporre alcune considerazioni.

La ricerca in ambito medico è in parte finanziata dalle industrie farmaceutiche. In quale parte dipende da quante risorse pubbliche lo Stato decide di investire. Poiché lo Stato investe sempre meno, la quota di risorse derivante dall’industria è proporzionalmente maggiore. L’industria farmaceutica ha bisogno di finanziare ricerche condotte da strutture pubbliche, perché in Italia la sanità è prevalentemente pubblica e la stragrande maggioranza dei pazienti ricoverati si trova in strutture pubbliche.

L’industria farmaceutica può fare ricerca chimica e su animali nelle sue strutture, ma quando arriva alle fasi cliniche non può fare altro che rivolgersi alle strutture pubbliche. In pratica, lo Stato affitta strutture, ricercatori e pazienti all’industria privata, la quale poi stabilisce finalità e scopi della ricerca. Comprensibilmente, l’industria privata finanzia la valutazione dell’efficacia e della sicurezza dei farmaci che produce, nonché la possibilità di estenderne le indicazioni terapeutiche; in genere non finanzia ricerca di base o ricerca indipendente.

C’è un limite sfumato tra la ricerca clinica che effettivamente produce un beneficio per il paziente e quella che serve ad aumentare il consumo di un farmaco. Silvio Garattini ha ripetutamente sostenuto che il numero di farmaci in commercio è superiore alla necessità e risponde a logiche economiche piuttosto che terapeutiche. Anche se le sue stime possono apparire eccessive, è ovvio che nel principio Garattini ha ragione. Il problema di questo tipo di valutazioni sta nella definizione di “utilità” di un farmaco: nessuno infatti dubita che gli antibiotici servano, ma la domanda è: serve altrettanto un farmaco che prolunga la vita di un paziente neoplastico (in media) di sei mesi? E di tre mesi? Un farmaco che fa passare il mal di testa o il raffreddore un po’ prima dell’aspirina?

Ciascuno può dare la sua risposta a queste domande e decidere quando un farmaco è utile e quando non lo è. Però non è lecito semplificare: per chi è sano, il farmaco che a caro prezzo prolunga la vita del paziente neoplastico di tre mesi può sembrare inutile, ma il paziente neoplastico e i suoi cari probabilmente lo ritengono utile. La ditta farmaceutica che detiene il brevetto lo ritiene certamente utile e finanzia ricerche che lo dimostrino. Il pubblico giustamente si indigna nei confronti di medici accusati di corruzione, a vantaggio dell’industria e a danno dei pazienti, e certamente non sarò io a difenderli: i giudici giudicheranno.

Però l’opinione del pubblico è importante perché il pubblico elegge i legislatori, che decidono quanto debba essere finanziata la ricerca pubblica, e in quale misura le strutture pubbliche possano fare ricerca finanziata dai privati, tenendo conto di quanto siano desiderabili i prodotti di questa ricerca. Volere il farmaco nuovo senza il finanziamento privato della struttura pubblica dove viene testato è come volere la botte piena e la moglie ubriaca. Volere il farmaco nuovo, prodotto e testato da strutture pubbliche con finanziamenti pubblici, significa volere un sistema comunista nel quale lo Stato è imprenditore.

A prescindere dalla scelta politica che il pubblico esprime e che il Parlamento traduce in legge, il rischio della corruzione è costante in tutti gli ambienti nei quali circolano tanti soldi, soprattutto se, come nella sanità, questi soldi sono pubblici e quindi la costante vigilanza del potere giudiziario è irrinunciabile.

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