A poco più di una settimana dalla notte di place du Louvre, Emmanuel Macron è ufficialmente il nuovo presidente francese; il tempo è maturo per una fotografia della situazione, a bocce ferme. Mossa d’apertura: nominare il primo ministro, sul cui nome non ci si è mai sbilanciati neanche nelle fasi finali della campagna elettorale. La scelta, destinata a spaccare il fronte repubblicano a destra, è ricaduta su Edouard Philippe, sindaco di Le Havre e uomo vicino ad Alain Juppé. Finora siamo perfettamente in linea con ciò che Macron ha ripetuto all’infinito in campagna elettorale, con l’indicazione di un uomo che sì, è parte dello schieramento di destra, ma è comunque lontano dalla piega che buona parte dei Républicains ha preso dalla vittoria delle primarie da parte di François Fillon fino ad oggi. Al di là delle speculazioni possibili in questo momento e in ottica di legislative, osserviamo un primo dato di fatto: Macron punta a spaccare la destra attirando a sé la parte più centrista dello schieramento e tentando di ridimensionare la portata che il cambiamento al vertice dei Républicains potrà generare per il partito in termini di voti.
La strategia adottata da tempo è nota: si vince al centro, un adagio di cui abbiamo sentito parlare per molti anni dalle parti di casa nostra. Ma una scelta del genere potrà effettivamente portare il cambiamento nella società francese che Macron ha auspicato e annunciato più volte in campagna elettorale e nel discorso di insediamento? In termini di politica estera, molto dipenderà da come l’asse Parigi-Berlino riuscirà effettivamente a trasformare in riforme uno sperato rilancio per l’Europa. Europa su cui comunque, ancora oggi, ci sono un buon numero di spigoli da limare da entrambe le parti. In casa, invece, En Marche fa rotta verso l’11 giugno affrontando il pericolo di veder sgonfiare il momento di grazia che ha portato Macron al 66% del 7 maggio.
La scorsa settimana ho fatto un salto alle registrazioni a Parigi della puntata mensile di BBC world questions, il programma radiofonico dell’emittente britannica in cui il dibattito è moderato da un presentatore vero e proprio, ma le domande sono poste direttamente e unicamente dal pubblico. Un buon termometro per capire che cosa si aspetta da Emmanuel Macron un determinato tipo di pubblico (e di elettori), discutendone insieme a membri di alcuni tra i principali schieramenti politici che hanno collezionato una percentuale di preferenze intorno al 20% al primo turno del 23 aprile.
Il ruolo di “portatrice di buone notizie” è stato affidato a Sylvie Goulard, europarlamentare e membro di En Marche, che comunque non ha complessivamente fornito tutte le risposte necessarie a smontare gli attacchi di Olivier Tonneau di France Insoumise e del pubblico, che incalzava su riforme del mercato del lavoro e disoccupazione. I timori più diffusi, tra l’audience come per l’opinione pubblica nel Paese in generale, orbitano principalmente attorno a ciò che Tonneau ha definito “un problema di rebranding”: limitarsi a dare una nuova faccia a politiche vecchie e fallimentari, senza che si intervenga realmente sui problemi che hanno generato la crescita di France Insoumise e del Front National.
Per Tonneau, Macron rappresenta il simbolo di queste politiche, anche per il ruolo che ha ricoperto durante il governo di Hollande. E se Sylvie Goulard, durante la discussione, prende ad esempio riforme del mercato del lavoro come quella sui cosiddetti mini jobs tedeschi e il Jobs Act di Renzi in Italia, potrebbe venire da chiedersi se dalle parti di En Marche abbiano intenzione di intervenire efficacemente sulla galoppante disoccupazione giovanile o semplicemente di incrementare la precarietà contrattuale per una generazione Erasmus che, progressivamente, si sta trasformando sempre di più nella “generazione tirocinio”.
I problemi che le persone affrontano tutti i giorni, nelle grandi città, come nella campagna che ha scelto in maniera sostanziosa di votare per Marine Le Pen, sono reali e concreti – disoccupazione, potere d’acquisto, sicurezza. Tale sintesi, è strettamente collegata alle conseguenze della strategia elettorale di Macron, sia che il Presidente riesca a ottenere la maggioranza assoluta con En Marche, sia che si trovi a dover far perno su una coalizione per attuare delle riforme: al centro si potrà anche vincere, ma è l’area politica giusta per cambiare? E se sì, in quale direzione?
Come evidenziato da Martial Foucault (direttore del Centro di ricerche politiche di Sciences Po) in una chiacchierata post-voto, tutti gli indizi sembrano suggerire la scelta della continuità con le politiche economiche del precedente governo. Ciò che viene definito come “un nuovo modo di fare politica in Francia”, alla prova dei fatti, potrebbe trasformarsi in un semplice rimescolamento delle carte. Sarebbe la metafora di quel – fondato, ammettiamolo – timore pre-ballottaggio covato da molti osservatori: le forze liberali e progressiste, una volta risultate vincitrici della contesa elettorale, non possono permettersi di nascondere sotto il tappeto problemi e richieste d’aiuto di cui il momento del voto è stato megafono fondamentale e che sono sintomatiche e rappresentative di una società profondamente divisa, orizzontalmente e verticalmente. Ignorare o dare ascolto a questi segnali, a partire dalla formazione degli equilibri in Parlamento, potrebbe risultare decisivo per l’appuntamento di metà giugno.